HENRY MOORE
di Carlo Alberto Bucci (La Repubblica, 23-09-2015)

Moor,_three_piece_sculpture_vertebrae_,1968-1969

Le donne distese Henry Moore, quasi personificazioni del paesaggio tanto la forma del corpo aderisce con naturalezza alla linea dell’orizzonte, esposte al cospetto della grande architettura romana. E in un confronto con la statuaria classica in cui le forme sintetiche (moderne e archaiche al contempo) di uno dei sommi dell’arte Novecento dialogano con le antiche statue acefale di matrone e togati, eseguite da anonimi scalpellini dell’impero.

Innamorato dell’arte italiana — di Michelangelo e, soprattutto, degli affreschi fiorentini di Giotto e dei giotteschi, ma anche del Rinascimento nella pittura veneta di un Giovanni Bellini — il maestro inglese (1898-1986) avrebbe certamente approvato la scelta di esporre una selezione delle sue opere nelle magnifiche aule di Diocleziano. Il museo delle Terme di piazza della Repubblica rinnova così la sua vocazione per la grande arte moderna e, dopo la mostra di Rodin o quella recente della fotografa Florence Henri, propone circa 75 lavori di Moore, 64 dei quali provengono dalla Tate di Londra che, in collaborazione con la Soprintendenza archeologica di Roma ed Electa, ha organizzato la mostra affidandone la cura a Chris Stephens e a Davide Colombo. L’antologica è articolata in 5 sezioni tematiche. Si parte con “L’esplorazione iniziale del moderno”, quando, nel corso delle visite al British Museum, l’attenzione di Moore per la scultura classica (e le sue figure sdraiate mimano i marmi del Partenone)si univa alla passione per le figure ieratiche delle culture precolombiane e, di conseguenza, per l’arte “primitiva” di Picasso o Brancusi, fino al surrealismo.

Punto di sintesi tra linguaggio astratto e la ricerca delle forme dell’inconscio, l’arte di Moore è andata alle radici della natura e della storia. Una delle sezioni della mostra è dedicata al tema della Madre e del figlio, solo a volte riflesso della Vergine con il Bambino. E in questi gruppi, che siano grandi sculture, piccoli bronzi o disegni e incisioni, l’eco di forme organiche che sembrano modellate dal vento, come le pietre nel paesaggio, si riverbera nelle suggestioni formali dell’iconografia mariana. Aperta dal bronzo della Galleria nazionale d’arte moderna di valle Giulia, la mostra “Henry Moore” negli spazi del Museo nazionale romano ( da domani al 10 gennaio) getta un faro sul rapporto che lo scultore britannico ebbe con il Bel Paese: a partire dal Grand Tour del 1925, passando per il successo alla Biennale di Venezia del 1948 (fu allora che Stato italiano e Peggy Guggenheim acquistarono le sue opere, oggi esposte a Roma) e approdando sui lidi della Versilia dove soggiornò a lungo, accanto alle cave di Carrara e vicino all’amico Marino Marini, del quale è esposto il bel “Ritratto di Moore” del 1962 (Milano, Museo del ‘900). Fino alla mostra del 1972 al Forte del Belvedere di Firenze con le monumentali figure aperte (grazie al peculiare scavo dei corpi) al paesaggio.

Protagonista del ritorno all’intaglio diretto delle grandi sculture e del rispetto per il sentimento della materia, Moore fu anche cronista del dolore. In mostra ci sono 4 bellissimi disegni sulle scene nella metro di Londra sotto le bombe del 1940.

 

 

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