I TANTI PERCHE’ DI UN SUCCESSO PLANETARIO
di Mario Perniola (La Repubblica, 20-09-15)

 

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Dagli inizi degli anni Novanta assistiamo a un fenomeno sorprendente: la proliferazione in tutto il mondo di un modello di evento culturale il cui archetipo risale alla prima Biennale di Venezia del 1895. Successivamente le Biennali furono poche: quella di San Paolo nel 1951, di Sidney nel 1975 e di L’Avana nel 1984. Oggi si contano almeno 175 Biennali, di cui circa il 45% in Europa, il 26% in Asia, il 16% in America e il 12 % nel Medio Oriente, in Africa e in Australia. Questo fenomeno è stato oggetto di un convegno internazionale presso lo ZKM di Karlsruhe: secondo alcuni, sta nascendo una nuova disciplina, la “Biennalogia”, che racconta la storia dell’arte sulla base delle mostre, mettendo in ombra le poetiche, le scuole e i singoli artisti.
Recentemente si sono costituite anche due organizzazioni no-profit, la Biennal Foundation nel 2009 con sede in Olanda, e l’International Biennal Association nel 2012 con sede nella Corea del Sud. Queste si propongono di creare una rete internazionale che favorisca i rapporti tra gli addetti ai lavori, di promuovere la diffusione della conoscenza dell’arte contemporanea e di incoraggiare la riflessione degli studiosi. A differenza della maggior parte delle Biennali, esse sono indipendenti dalle istituzioni politiche e quindi a prima vista dovrebbero fornire indicazioni sullo stato dell’arte più affidabili di quelle che emergono dalle singole esposizioni: tuttavia essendo composte da direttori di musei e da curatori, nascondono un conflitto d’interessi che le rende poco adatte a diventare vere agenzie di valutazione. La Biennal Foundation sopperisce a questo vizio d’origine con un Forum, a cui sono invitati pensatori critici nei confronti dei mondi dell’arte, come la politologa Chantal Mouffe e Peter Osborne, filosofo e redattore di Radical Philosophy . Quest’ultimo nel Forum di San Paolo del 2014, «Making Biennials in Contemporary Times», ha definito le Biennali come un aspetto della globalizzazione neo-coloniale che mira a porre nuovi spazi, ritenuti marginali oppure aree depresse, sotto il controllo del capitale finanziario transnazionale. Analizzando la nozione di contemporaneità, arriva alla conclusione che proprio l’affannosa periodicità, instaurata da centinaia di Biennali, dissolve paradossalmente la stessa esperienza del presente, lanciandoci in una rincorsa verso ciò che è “più nuovo”. In effetti, un aspetto essenziale della Biennale consiste nell’affermare il primato dell’evento sull’istituzione museale che è permanente. La temporalità della Biennale sarebbe il necessario effetto sistemico della sovrapproduzione capitalistica. L’analisi di Osborne è piconfermata dalla mia esperienza personale: ricevo via mail da una piattaforma curatoriale americana la notizia di un nuovo evento artistico in media ogni due ore!
In conclusione, giova sottolineare tre questioni. In primo luogo, non bisogna dimenticare che la Biennale è l’erede del Salon dell’Ancien Régime, esposizione di pittura e scultura che si svolse a Parigi dal XVII al XIX secolo e con questo condivide la dipendenza dal potere politico. Da quando l’arte attuale, con le avanguardie, è diventata per eccellenza l’ambito della sovversione, è nata una singolare aporia. In secondo luogo, risulta difficile rivendicare l’autonomia e l’autogoverno di un campo come quello artistico, che ha fatto dell’auto-denigrazione la propria bandiera: si pensi alla Fontaine di Duchamp, un orinatoio rovesciato, assunta dagli anni Sessanta ad archetipo delle Neo-avanguardie. Infine, l’antropologia ha evidenziato il carattere eurocentrico della nozione di “arte”: esportandola nel mondo, compiamo un’operazione di imperialismo culturale.
Ciò non toglie che proprio queste contraddizioni rendano le Biennali manifestazioni quanto mai eccitanti e stimolanti, se appena si capiscono le tattiche e le strategie curatoriali che ad esse sottendono. Insomma una biennale riuscita non è un luna park, ma il luogo in cui vengono al pettine molte insensatezze della società in cui viviamo.

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