Synchronicity, di Paolo Russo, (La Repubblica, 10-10-2015)

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Tutta l’arte è contemporanea. Del proprio tempo, del nostro perché l’ha nutrito così come farà con quello futuro. Da anni questo pensiero ha imposto un modello espositivo che accosta lavori di oggi a quelli del passato. Modello che “Synchronicity. Da Lippi a Warhol” — inoltre buon esempio di mini budget, 50 mila euro — riprende nel magnifico Medio Evo impeccabilmente riallestito di Palazzo Pretorio ( fino al 10 gennaio), a partire dagli studi di Jung sulla sincronicità. L’emergere cioè, nel confronto fra opere di tempi anche lontanissimi, di quelle che lo studioso definiva «coincidenze significative per le quali

la nostra conoscenza non ha spiegazioni causali da offrire». In questo misterico, rigenerante ma anche abissale flusso di eterni ritorni, la mostra firmata da Stefano Pezzato si disegna come un borgesiano giardino dai sentieri che si biforcano. Percorribile in ogni possibile direzione, anche solo con la propria individualità.

D’altro canto, che ognuno sia critico per sé sostenevano Tzara e Picabia. Così la bella collezione permanente — gli splendidi Filippino Lippi su tutti, Donatello, Giovanni da Milano, Bernardo Daddi, gli eccentrici gessi fra Otto e Novecento di Jacques Lipschitz, accademici locali ma pure griffe europee di re e potenti come Alessandro Franchi e Lorenzo Bartolini — si ravviva dei frammenti di un dialogo amoroso sull’arte tutta. Scritto con acume e belle intuizioni visive oltre che filologiche dal lavoro di Pezzato. Che da bravo giardiniere — e cos’è un curatore di mostre se non un giardiniere dell’arte? — nelle venti sale del museo ha innestato in trentasette lavori. Dal 1964 di Mise en plis di Gnoli e delle Joconde del tagliente, fatale Duchamp — specchiate in quella serigrafica di Warhol, 1979 — al 2010 delle foto di Santiago Serra. Un cammino aperto a tutti fra lo sciamanico, il ludico e l’iniziatico, lungo tracce disseminate qua e là, sovente con bei colpi di teatro, tra anfratti e scale, nicchie e anditi fino alle sale più clamorose.

Un’indagine nell’infinito catalogo dell’arte occidentale per assonanze o dissonanze di media, scale, soggetti, storia, colori. Così il sangue della Abramovic come sempre straziata e indomabile, disegna il suo ventre inciso con la stella jugoslava accanto al buio caravaggesco del dolente Cristo e la Maddalena di Battistello Caracciolo. L’algido horror dei mostri atemporali del Barney di Cremaster Suite (superbi i frame della divina Ursula Andress come dark lady e dell’autore come ineffabile pendaglio da forca), si guarda nel Pistoletto che con uno specchio riflette sulla Venere di Urbino di Raffaello illuminando il candore dei gessi di Lipschitz, Romanelli e Bartolini.

A un passo, Warhol appare nella sola foto di lui mai esposta. La scattò Maria Mulas nel 1987 poco prima della morte del mago pop, che accanto iscrive (1974) con sobrio glamour nel suo pantheon di serigrafate star anche il pratese Giuliano Gori, già allora molto più d’un collezionista di fama. È storia locale ma universale anche quella dell’anarchico pratese Gaetano Bresci, giustiziere del crudele Umberto I: davanti al suo ritratto del Franchi, ora campeggia una fetta di tronco su cui Zorio ha vergato a fuoco “odio”. Più gentilmente incisivo,

Mele di Piero Gilardi, così artificiale ma seducente da sperarlo vero, risveglia col verde dell’erba e il giallo dei pomi l’antico torpore della sala delle nature morte. Poco distante, il capitale Rauschenberg del ’65 rende a nuova vita la Divina Commedia in una profetica sintesi di disegno, tv, cinema, fumetto, di fronte alla ottocentesca accademia dell’ Annunciazione del Franchi. La qualità delle opere facilita inoltre un approccio pezzo per pezzo.

E come non emozionarsi davanti al Tavolo da lavoro di Spoerri che, a volo d’uccello, balza fuori dalla parete, mappa densissima della fucina dell’artista, il suo più intimo spazio? Mentre la performance di un altro profeta, Vito Acconci, registrata nella storica galleria fiorentina Art Tape 22 nel 1973, concepisce linguaggi a venire all’alba di video e body art. C’è molto corpo in mostra. E se il video della Beecroft seziona la donna fra grado zero e carne- oggetto delle fashion model, il più anziano maestro Bruce Nauman, nel video Flesh to White to Black to Flash , agisce sulla propria pelle la sofferenza generata dal razzismo, lavorando ossessivamente sul tremendo confine fra apparenza e identità.

Due soli, bella scelta antiretorica, ma di asciutta intensità, i lavori intorno alla tragedia dei migranti. Gli otto enormi b/n di Santiago Serra che seguono dieci extracomunitari mentre su una spiaggia toscana si scavano la fossa per seppellircisi dentro. E il grande cubo di giubbotti di salvataggio della veneziana Margherita Morgantin: oggetto eternamente presente nelle vite di chiunque abiti in laguna, eternamente assente in quelle annegate di migliaia di persone nel Mediterraneo di oggi.

Una serenità arcaica promana invece, accentuata dalla monumentalità degli attigui Lippi e Daddi, da due piccoli capolavori che risalgono al 1962: la magica Victoire de Samothrace blu cobalto di Klein, e il Fontana dopo Fontana di Concetto spaziale , raro olio rosa con tagli e graffiti di Fontana. E se i ready made delle Mona Lisa di Duchamp ci riportano e alla culla dell’arte contemporanea tutta, è l’epifania di Cornell, quella che lascia il segno ultimo. In The Bust (1969) quasi rannicchiato vicino a una superba terracotta di Donatello, quell’inarrivabile unicum del Novecento evoca come solo lui la malinconia estrema della perdita. Per tutta la vita inseguita con la sua lirica versione degli object trouvé, anonimi Graal quotidiani da salvare per ridar loro la vita immaginandone la storia.

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