QUANDO L’ARTE SOCCOMBE AL POTERE
di Simone Oggionni («Cronache del Garantista»)

 

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Sono convinto che Roberto Gramiccia, autore di “Arte e potere. Il mondo salverà la bellezza?” (Ediesse, pag. 219, euro 13,00), sapesse che scrivere un libro con un titolo del genere era un’impresa a dir poco spericolata. Lui lo ha fatto lo stesso e il risultato mi pare di assoluto rilievo. Ne è venuto fuori, infatti, un saggio molto utile, di agevole e intrigante lettura, nonostante la complessità dei temi affrontati e il loro porsi come un filo di perle entro una storia di ambiguità, polisemie, contraddizioni, tensioni e contro-tensioni.

Secondo Gramiccia, nel cuore di questa storia, fra le tante, si staglia una contraddizione regina: la lotta tra l’arte e il potere, intesa come lotta di liberazione, di emancipazione della prima dalle catene del secondo. Però attenzione: l’autore è un marxista, non un moralista, e sa bene che il potere è tante cose: è il sistema di dominio economico ma anche il luogo della egemonia, della possibilità, della scelta, del consenso, della sovranità dei corpi sociali. E per questo si interroga sul potere oggi. Che cos’è il potere, oggi? Cosa prevale, oggi? Il dominio o la condivisione, il bonapartismo o la democrazia? Con quale potere si confronta l’arte, oggi?

Attraverso una disamina appassionante, un viaggio nei secoli fra teorie, linguaggi e stili, Gramiccia giunge a una conclusione che, amaramente, condivido: il potere è oggi il corredo strumentale del dominante; il feudo acquisito da un dominus che è non tanto il mercato, ma le regole neo-liberiste di un modo di produzione che sa quali interessi proteggere e quali prevaricare. Il potere qui e ora, quello con cui si confronta l’arte, è quello di un Occidente che ha messo in campo da oltre trenta anni una gigantesca rivoluzione passiva. Che esprime il dispotismo di un processo di mercificazione globale.

La quadripartizione della storia dell’arte che Gramiccia propone ci aiuta a capire: siamo nella quarta fase della storia dell’arte, che comincia con la fine delle neo-avanguardie degli anni Sessanta e che coincide con l’inizio della rivoluzione conservatrice e neo-liberista. Siamo nel tempo dell’arte post-contemporanea, il cui tratto distintivo è l’uscita di scena della realtà o meglio la riduzione di essa alla sua mera dimensione monetaria. Il neoliberismo mercifica l’arte e mercificandola la scarnifica, la priva di senso. Ma non la uccide, perché l’arte appunto è un business straordinario il cui simulacro deve rimanere in vita, anche se in una dimensione ancillare, privata di anima, riprodotta in serie.

Vorrei soffermarmi brevemente su un’intuizione dell’autore, che non mi pare sia colta appieno nelle recensioni che ho letto del suo libro. Mi riferisco al concetto di immortalità dell’arte (quando è vera arte), al confronto con la dimensione della morte e quindi dell’infinito e dell’eterno. Intendo dire che Gramiccia valorizza – lo fa in tutto il corso del libro – il nesso inestricabile fra l’angoscia della morte (che muove dalla consapevolezza della propria finitudine) e le conquiste dell’uomo (la sua stessa storia) che rappresentano la reazione ad essa. In particolare fra la consapevolezza della propria vulnerabilità e l’ebbrezza dell’immortalità che l’arte può regalare. L’arte è tale se usa un linguaggio universale, veicola codici narrativi che trascendono il limite, che portano oltre. Come la musica, come la politica.

L’arte è tale quando mette in scena l’autonomia e l’autogoverno dei corpi sociali e dell’artista. Quando ambisce a conquistare e definire – anche contro il potere – un immaginario. Quando allude a un grande progetto di trasformazione, etico, estetico o talvolta addirittura sociale. Qui il cerchio si chiude. Perché se l’arte è oggi così debole e così prossima alla morte è perché ha perso questa dimensione. E la politica, schiacciata sul potere, è a sua volta afasica, priva di linguaggi universali, priva di capacità evocativa e trasformativa. Ha perso le parole, la grammatica, sia per interpretare il passato, sia per parlare del presente, sia per immaginare il futuro. Ed è priva – ça va sans dire – di ogni qualità estetica, di ogni capacità di ri-conoscere il bello e di esprimere un giudizio, morale e spirituale, attraverso i sensi (àisthesis).

Affinché l’arte riacquisti potere, forza, libertà, autonomia, valore serve che gli artisti si oppongano al sistema dell’arte per come oggi si configura. Ma non basta. Serve la ripresa – controcorrente – di un cammino verso quel sistema di valori fatto a pezzi da quella che Vargas Llosa, arrivando al queste stesse conclusioni, definisce, parafrasando Debord, “civiltà dello spettacolo”.

Il pensiero unico neoliberista è la bibbia di questa civiltà incivile. E il libro di Gramiccia fornisce uno strumento in più per smascherarne gli strumenti e gli effetti perversi. La crisi dell’arte in questo contesto – come ben si capisce – è la metafora di una deriva ben più generale e complessa.

 

 

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