MARIO DONDERO, morto il fotografo che ha scattato una lunga istantanea del ‘900, di Davide Turrini (Il Fatto quotidiano, 14-12-2015)

06-prima-dondero-foto-danilo-de-marcoCe lo ricordiamo così, con quella Leica appesa al collo, sgattaiolare tra i presenti in una serata a teatro con Stefano Tassinari, alla prima di un film restaurato di Pasolini, alla presentazione di un classico alla Feltrinelli. Mario Dondero, morto domenica sera, ad 87 anni, nella sua casa di Fermo (Ascoli Piceno), era un intellettuale instancabile, presenza discreta e ovunque. Viaggiava di continuo. Passava a Bologna, poi a Genova, e ancora Parigi. In giro per il mondo, sempre a seguire e capire quel che accadeva, e a scattare fotografie.

Sguardo curioso, mente brillante, rotelle in funzione, non solo quelle della macchina fotografica, Dondero ha come scattato una lunga infinita istantanea del ‘900. Quello che nel dopoguerra è rinato sulle macerie dell’ideologia totalitaria fascista e sull’idea che il cambiamento di un popolo passasse soprattutto dall’emancipazione culturale attraverso l’immagine. Dondero ha fotografato la quotidianità urbanizzata e le facce, i corpi della storia mondiale; ha colto l’attimo di un contadino che guarda l’obiettivo con un falcetto in mano, stessa traiettoria di sguardo di una Stefania Sandrelli in costume da bagno con gli occhi languidi della diva che avrebbe fatto innamorare il mondo.

Ce lo ricordiamo così, con quella Leica appesa al collo, sgattaiolare tra i presenti in una serata a teatro con Stefano Tassinari, alla prima di un film restaurato di Pasolini, alla presentazione di un classico alla Feltrinelli. Mario Dondero, morto domenica sera, ad 87 anni, nella sua casa di Fermo (Ascoli Piceno), era un intellettuale instancabile, presenza discreta e ovunque. Viaggiava di continuo. Passava a Bologna, poi a Genova, e ancora Parigi. In giro per il mondo, sempre a seguire e capire quel che accadeva, e a scattare fotografieSguardo curioso, mente brillante, rotelle in funzione, non solo quelle della macchina fotografica, Dondero ha come scattato una lunga infinita istantanea del ‘900. Quello che nel dopoguerra è rinato sulle macerie dell’ideologia totalitaria fascista e sull’idea che il cambiamento di un popolo passasse soprattutto dall’emancipazione culturale attraverso l’immagine. Dondero ha fotografato la quotidianità urbanizzata e le facce, i corpi della storia mondiale; ha colto l’attimo di un contadino che guarda l’obiettivo con un falcetto in mano, stessa traiettoria di sguardo di una Stefania Sandrelli in costume da bagno con gli occhi languidi della diva che avrebbe fatto innamorare il mondo.

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Mario scatta in continuazione, sa di avere una responsabilità sociale per quello che fa (“non è che a me le persone interessino per fotografarle, mi interessano perché esistono”). Non lavora di certo come paparazzo, ma non è nemmeno un fotoreporter come pratica professionale vuole, nonostante la sua passione per il giornalismo. Dondero amava semplicemente osservare e documentare. Poi ci aggiungi il talento, l’intuito, la naturalezza del gesto, dell’essere tutt’uno con l’oggetto del mestiere. Il pollice che sblocca il meccanismo e arrotola la pellicola, l’indice che schiaccia il pulsante dello scatto, la mano che mescola focali, luce e profondità. Artisti si nasce, fotografi si diventa. Nessuna sterile polemica col proliferare del digitale, peraltro da lui mai platealmente demonizzato, ma una genetica predisposizione a non moltiplicare angolazioni, cromatismi, pose. I suoi soggetti, e oggetti, immortalati in bianco e nero erano prima di tutto elementi dell’armonia di un cosmo che bastava cogliere nella sua pura essenzialità.

E poi c’era, soprattutto, una ragione, un pensiero, un discorso che andavano oltre la manualità automatica dello scatto. Perché spesso la fotografia di Dondero si tramutava in un viaggio imprevisto, nel bistrot per una bevuta, su un camion a cercare nuove storie di uomini, in uno studiolo a raccontarsi con macchina fotografica in stand by.

Nato il 6 maggio 1928 a Milano, ma di origine genovese, Dondero da adolescente partecipa alla Resistenza in Val d’Ossola. Dopo la guerra si dedica al giornalismo di carattere sociale collaborando conL’Unità e L’Avanti. Frequenta il Bar Giamaica a Milano, fa parte del gruppo dei “Giamaicani” con Buzzati, Balestrini, e Tadini. Capa e Cartier Bresson come numi tutelari, si orienta subito per una fotografia “umana, che rifiuta gli effetti spettacolari, rispettosa della semplicità del reale”. Nel 1954 da Parigi collabora con l’Espresso,Epoca, Le Monde, e Le Nouvel Observateur. Fotografa senza che siano ancora diventati celebri gli scrittori del Nouveau Roman: a figura intera ci sono, tra gli altri, Alain Robbe-Grillet, Claude Simon, Claude Mauriac, Samuel Beckett.

Poi cominciano i lunghi, densi, e illuminanti viaggi per il mondo: l’amata Africa, il Marocco, l’Algeria, la Guinea, ma anche l’America Latina, Cuba, l’URSS. Perfino negli ultimi vent’anni il Canada e l’Afghanistan. Marc Chagall lo caccia dal suo appartamento senza uno scatto che uno perché Dondero non gli mostra il tesserino da giornalista. Poi il fotografo giramondo ritrae scrittori, artisti, attori, intellettuali: Francis Bacon, Alberto Giacometti, Giorgio De Chirico, Ungaretti, la Callas, Yves Montand e Serge Gainsbourg, Orson Welles e Federico Fellini, Vittorio Gassman e Roman Polanski, Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, Primo Levi ed Edoardo Sanguineti, Neruda e Garcia Marquez.

Ma ci sono anche diavolo e acqua santa, oriente e occidente, guerre fredde sbriciolate e sciolte nell’obiettivo della Leica, della Rolliflex e della Pentax Spontmatic: Fidel Castro, Deng Xiaoping, Ronald Reagan, Nikita Krusciov, Mikhail Gorbaciov e Willy Brandt. “Mi attengo sempre alla sintesi deontologica del fotografo tracciata daKapuscinski”, spiegò una volta. “Conservare uno spazio di ingenuità. Soltanto così non si diventa cinici”.

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