LUCA BARRECA risponde alle cinque domande di Hidalgo

Giovane critico siciliano, naturalizzato romano, co-curatore, fra le altre numerose attività, della antologica di Lucilla Catania “Stareeandare” al MNAO di Roma: oggi si racconta sulle pagine di Hidalgoarte.it il brillante Luca Barreca. Risponde al questionario proustiano sottolineando gli aspetti nodali del rapporto fra arte e comunicazione, forte della sua esperienza autoriale in televisione. Condanna l’iperspecialismo dei saperi che affligge non solo l’arte ma anche altre discipline come la filosofia e la medicina, e in particolare il mondo accademico, auspicando il ritorno ad una visione olistica dell’arte e non solo.

 

Qual è il ruolo della comunicazione, anzi dell’ipercomunicazione tipica dei nostri tempi, nel condizionare le dinamiche del mondo dell’arte? 

Cominciamo col distinguere mondo e mercato dell’arte: in entrambi i casi infatti la comunicazione massificata, in una parola la globalizzazione, ha innescato processi simili e contrastanti allo stesso tempo. La cassa di risonanza del mondo contemporaneo, un mondo appunto globalizzato, è infinitamente superiore a quello che fino ad ora si è verificato nella circolazione delle idee artistiche e della loro reificazione, vale a dire le opere. Dal punto di vista della circolazione delle idee, il fenomeno ha senza dubbio aspetti positivi: confronti immediati, velocità di informazione, iper-mobilità di artisti e di opere d’arte creano un vortice produttivo che ritengo essere stimolante. Sul mercato il discorso è leggermente diverso, perché il valore assoluto e quello relativo di un’opera d’arte dal punto di vista economico viaggiano oggi su canali speciali e spesso incontrollabili; o meglio sarebbe dire sottoposti a un iper-controllo globalizzato, per cui un’opera battuta in un’asta di New York trova immediatamente una cassa di risonanza economica a Pechino, e viceversa. Non esiste più un luogo principe nella diffusione di un indirizzo di tendenza. Non più la Parigi degli anni ’20; non più gli Stati Uniti degli anni ’60; non più, ormai, la Cina degli anni 2000. Si sono trasformati tutti in non-luoghi se considerati dal punto di vista della leadership in campo poietico: uno, nessuno, centomila. La sfida del nostro tempo è quella di gestire il non-luogo trasformando le opere stesse in luoghi della coscienza artistica; istituendo in tal modo un legame profondo tra la Storia e le storie di chi quell’opera l’ha creata: rivendicare insomma il vero ruolo dell’artista di ogni tempo e di ogni luogo. Comprendere questi meccanismi ritengo sia uno sforzo epocale, che però deve uscire dalle logiche strutturaliste del recente passato: non serve più discettare su sistemi linguistici i cui ingranaggi sono già vecchi nei presupposti; legati come sono ad una visione che non esiste più nei fatti oltre che nelle opere. Il metodo stesso di analisi deve andare al di là del post-moderno, farsi strumento di osservazione delle individualità da cui, nel migliore dei casi, si potrà trarre ancora Storia dell’arte.

In che misura e in che modo la crisi economica e di valori che attraversa l’intero Occidente riverbera e influisce sull’arte contemporanea?

Come sempre è stato. In questo non vedo grandi novità rispetto al passato. Senza scomodare G.B. Vico, mi sembra che la cosiddetta “crisi di valori” sia una di quelle variabili costanti del mondo occidentale almeno dalla fine della Repubblica romana sotto il camuffato principato di Ottaviano Augusto. Quindi a occhio e croce da 2047 anni. L’arte è sempre arte contemporanea: e a saper vedere, non solo guardare, i cosiddetti periodi di transizione, definiti di crisi (penso all’arte tardo-antica; al Manierismo; al disfacimento del Barocco; alle avanguardie storiche) sono invero i periodi più interessanti della storia dell’arte. L’inadeguatezza; la sofferenza; la cosiddetta e abusata terminologia della “crisi identitaria” (di quale identità poi si starebbe parlando è cosa ardua da stabilire…) vanno affrontate come sempre si è fatto: producendo. Un solo pericolo intravedo nella ricerca di un centro di gravità: la nostalgia; il retrogrado; il reazionarismo. Non mi riferisco tanto alla reazione da destra, sempre talmente manifesta da essere non solo poco pericolosa ma soprattutto poco interessante allo stato dei fatti, quanto quella più subdola da sinistra: il reazionarismo radical-chic, o gauche-caviar per dirla con i francesi, che ha nostalgia di un “sistema-struttura” che, bisogna convincersene una volta per tutte, fa ormai parte della storia. Se si supera la prigione nostalgica, forse la nuova produzione artistica sarà in grado di fare veramente qualcosa di nuovo. Il che non vuol dire non guardare alla storia, anzi, esattamente il contrario: il reazionarismo a cui mi riferisco è proprio la riproposizione acritica di un modello che a sua volta e nel suo tempo storico criticava dialetticamente la realtà: bisogna recuperare il meccanismo e non il modello stesso, la cui riproposizione troppo spesso nasconde un vuoto di contenuti sconcertante.

 

Esiste ancora una autonomia e un ruolo per il critico d’arte?

Certamente si. Nei limiti in cui usciamo dal paradigma romantico del critico-genio. D’altronde, su questo bisogna fare molta chiarezza. Il critico d’arte, nonché lo storico d’arte, ha sempre avuto bisogno della lusinga del mercato, tanto quanto il mercato, nella sua veste più nobile, vale a dire quella del collezionismo, ha sempre avuto bisogno dello sdoganamento culturale del critico. Sarebbe interessante ri-leggersi certi carteggi di quello che è considerato il padre della storia dell’arte italiana del Novecento, Adolfo Venturi, in merito a certe valutazioni della collezione Borghese al tempo della sua alienazione da parte dello Stato italiano. Andrebbe ricordato anche il rapporto tra il grande industriale Riccardo Gualino e un altro Venturi, tedoforo dell’astrattismo, Lionello, che mai nessuno si sognerebbe di tacciare di calcolo compromissorio, per la sua storia culturale, politica e personale. Mi piacerebbe che su questo ci fosse meno ipocrisia nel mondo della critica d’arte. Se il meccanismo fosse maggiormente manifesto, avremmo senz’altro una libertà maggiore nell’espressione di determinati giudizi. Invece purtroppo è spesso tutto un sottobosco, una sorta di “segreto di Pulcinella” dove ognuno fa la sua parte. Bisogna poi porsi delle domande cogenti: autonomia da chi? O da cosa? Dal mercato? Pleonastico; dal potere? Ingenuo; dal proprio interesse? Auspicabile.

 

Che ruolo gioca il sistema dell’arte nella selezione delle figure più influenti e di successo?

Io faccio un po’ fatica a individuare un tratto sistemico nell’individuazione di figure che si occupano di cose d’arte, restando la domanda se questo sia un bene o un male. Certamente bisogna distinguere tra funzionari legati alla struttura dello Stato dove le logiche sottostanno a procedure di quel diritto amministrativo che, ahinoi, avrebbe dovuto avere l’imprinting napoleonico, ma che la nostra storia nazionale ha trasformato in quella mostruosità burocratica, che governa l’italico suolo; e dall’altra parte i cosiddetti indipendenti (almeno nella forma, perché nella sostanza questi ultimi dovranno sempre confrontarsi con i primi). C’è senz’altro un rischioso fattore di visibilità che, partito dalle figure indipendenti, voraci e bulimiche di pop, si sta propagando come un morbo anche fra coloro che diligentemente e spesso a riflettori spenti, hanno operato e operano nel mondo dell’arte; nella sua conservazione; nella sua produzione. Credo che il sensazionalismo, la poetica del successo stia seducendo anche il più grigio funzionario ministeriale con esiti spesso avvilenti quando non pericolosi. Altra questione è quella mastodontica dell’affiliazione politica; delle correnti; dei rapporti più o meno leciti fra figure che ricoprono ruoli e ambiti diversi. Questo è un argomento molto delicato, perché si rischia sempre di banalizzarlo. Fatto salvo il concetto per cui è legittimo che un indirizzo politico orienti e indichi ruoli e affidamenti in modo partigiano, il reale problema sta nella caratura dei soggetti che a quel ruolo vengono destinati. A questo si è aggiunta la solita esterofilia italiana che si è lasciata sedurre da un certo sistema di gestione del bene culturale di stampo aziendalistico, confondendo con esso il piano imprenditoriale culturale che è ben altra cosa. Si è progressivamente importato un sistema di gestione dei luoghi dell’arte, in primis le strutture museali, in modo come al solito incompleto nei presupposti concettuali e rapsodico nelle procedure operative; perché dietro l’originale, come ad esempio in territorio statunitense, si cela un meccanismo legato alle fondazioni e ai grandi finanziatori che da noi è praticamente inesistente. Si dice che ci vorrebbe meno Stato, io ritengo che di Stato ce ne vorrebbe ancora di più ma non nel senso del tritacarne burocratico o peggio ancora “sovietico” ma nel senso dell’investimento reale in quello di una neo-centralizzazione che proceda per indirizzi condivisi, non frammentati e spesso espressione di interessi contrastanti, quali sono risultati essere i frutti di una sciagurata e presunta “autonomia”.

 

Quali ti sembrano le figure di intellettuali (curatori, direttori di museo, filosofi) prestati all’arte di maggiore interesse ?

Sono piuttosto favorevole alla contaminazione dei saperi, soprattutto in un’epoca come la nostra che, da questo punto di vista, definirei una brutta copia post-moderna dell’ellenismo. Assistiamo da un paio di decenni ad una iper-specializzazione dei saperi che trovo francamente avvilente. Questo fenomeno investe per di più ogni campo scientifico: dalla medicina alla filosofia. Basti pensare alla sciagurata riforma universitaria del 3+2 (rispetto alla quale fortunatamente molti atenei stanno clamorosamente facendo marcia indietro), che si è rivelata quello che doveva essere nelle intenzioni di chi la produsse: un cattedrificio di materie frazionate in modo inaudito. Negli ultimi anni mi sono aspettato di trovare da un momento all’altro su un ordine degli studi di tipo umanistico (non oso pronunciare più la parola unica “Facoltà di Lettere”…) una qualche “Storia dell’arte della parete destra della Cappella Sistina”, con titolare il massimo esperto della parete destra della Cappella Sistina. Sarcasmo a parte (ma non troppo…), sarebbe necessario un neo-crocianesimo per la figura dell’intellettuale, e una rilettura dell’Estetica del 1902 farebbe bene a molti. Detto questo, ritengo che alcune figure “non tecniche” provenienti da altri ambienti e chiamate a ricoprire ruoli su cui non hanno una specifica competenza, abbiano bisogno di un solo viatico: la capacità e l’umiltà di circondarsi di collaboratori esperti. Il mondo dell’arte contemporanea è in questo piuttosto vulnerabile, perché di per sé meno strutturato nell’individuazione di figure direttive che abbiano un credito dal punto di vista culturale specifico. A maggior ragione ritengo fondamentali i percorsi della formazione, ma non certo nella loro squallida aberrazione di produzione del lavoro, quanto nella possibilità del confronto con i mentori, quelli che una volta si chiamavano maestri, coloro i quali non ti garantiranno mai un “posto” ma senz’altro ti regaleranno un Metodo.

 

Luca Barreca è nato a Palermo 39 anni fa. Dopo la laurea in Lettere con indirizzo storico artistico, sotto la guida di Marisa Dalai Emiliani, con una tesi in Storia della critica d’arte, ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Estetica e Teoria delle Arti presso l’Università degli Studi di Palermo, a cui è seguita la pubblicazione dei carteggi di Matteo Marangoni. Ha fondato e diretto dal 2007 al 2011 la Galleria d’Arte Contemporanea Interno Ventidue. È stato docente di Semiotica delle arti e di Letteratura, Storia, Storia dell’arte e Psicologia dell’arte negli Istituti superiori, in particolare il Liceo Artistico. Si occupa di consulenza aziendale nel campo della Comunicazione visiva e del Visual Merchandising. Ha collaborato come autore e inviato per il programma di Raitre Art News; collabora come autore con RaiStoria e Rai5.

 

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