L’ARTE IN BILICO DI RANALDI ALLA FONDAZIONE MUDIMA DI MILANO, di Silvia Sperandio (Il sole 24 Ore – 22 gennaio 2016)

ranaldiPuò un semplice utensile da lavoro come una pialla, una volta issata su un asse di legno, assumere un’altra sembianza e trasformarsi in un totem misterioso che scruta l’orizzonte? E possono due tubi bianchi della stufa economica, giustapposti e penetrati da fogli d’oro alle estremità, rivelare una nuova, lussuosa essenza?
Si intitolano rispettivamente “Ermapialla” (2006) e “Sibaritico” (2014), queste opere di Renato Ranaldi che, lungi dall’essere dei ready made, affermano un vero e proprio processo di sacralizzazione dell’oggetto, attraverso contaminazioni che producono spiazzamenti di senso: così, la realtà oggettuale perviene a una presenza fantasmatica, spettro che risuona muto nell’ambiente circostante.

Una tensione silenziosa abita in questi giorni lo spazio della Fondazione Mudima di Milano che ospita la mostra dell’artista fiorentino Renato Ranaldi, di estrazione concettuale, ironico inventore di senso ed eclettico esploratore di linguaggi e materiali.

Assemblaggi di oggetti e installazioni, accanto a tele, meccaniche di colore e koan visivi. Sculture fuori-asse, accanto a tele fuori-quadro: le opere di Ranaldi appaiono allo sguardo perennemente in bilico, e conquistano lo sguardo con arditi equilibrismi.

Sono arredi ideali di una voluttuosa “Tebaide”, intesa come un luogo aulico di metariflessione sull’arte.
L’arte è fuori dal quadro, fuori dalla tela, sembrano gridare alcuni lavori, sprigionando una tensione riconoscibile. È il caso di “Contenzioso”, un lavoro site specific del 2016: due enormi tele bianche si contendono un grumo materico e plastico di colori primari. La materia appare costantemente vicino al punto di lacerazione, come se stesse seguendo un processo di mitosi cellulare.. ma la tensione è destinata a durare, poiché nessuna delle due tele riuscirà nell’impresa di accapparrarsi i colori.

Altre superfici restano candide, alle pareti di Mudima, sporcate solo ai lati da residui di colore, quasi ad affermare una centralità “altra” della tela: il fuoco tematico sta oltre lo spazio tradizionale della rappresentazione, invade ciò che sta fuori ma lascia intonsa la tela.

In una altra opera, “Fuoriquadro archeologico” del 2011, un’architettura triangolare di mattoni sta saldamente legata a un lato della tela grazie a un filo metallico, quasi a fare da ideale contrappeso alla superficie leggera. L’equilibrio tra il pieno e il vuoto ricorre anche in altre opere , come “ Tappeto manovella” del 2011: un prezioso tappeto persiano, arrotolato su manovella è stato legato a un lato di una tela bianca. In un altro lavoro esposto, “Qual è il fuoriquadro” (2015), accostata a una tela bianca troviamo invece una falsa opera di Rosai, in uno scandaloso connubio tra mimesis e sostituzione di senso.

L’arte è fuori asse, fisicamente in bilico, anzi è essa stessa il bilico, sembrano gridare altri lavori nello spazio di Mudima, come il magistrale gioco di equilibri precari dell’opera “Ritratto di un amico scomodo” (2015), realizzata appositamente per lo spazio della mostra: una lunga e robusta canna di bambù sta infilata in un bronzo che sua volta poggia su una tela… Il concetto di bilico permea dunque la poetica dell’artista, e ne è presupposto fondamentale: mettere in pericolo, a rischio, il linguaggio, serve a profilarne la tensione.

Anche questo lavoro di Ranaldi, come una sinfonia polistrumentale, sembra affermare a gran voce che nella profondità -multidimensionale- del flusso vitale, tutto è in equilibrio. E che sono proprio la precarietà e l’instabilità a permetterci di cogliere il divenire delle cose.

È emblematica, a questo proposito, la galassia ideale suggerita dalla grande scultura “La joie de mourir”, del 2007, una scultura danzante nella citazione capovolta di Matisse. Dodici bastoni neri da passeggio con i manici curvi delineano sulla parete un’ellise irregolare. I bastoni sono legati tra loro dalla parte dei manici, mentre i corpi allungati trafiggono grumi di bronzo, in un continuum di linee rette e forme piene. Elegante, nel ritmico alternarsi di nero e oro, “La joie” pare evocare il mistero della gravitazione universale, laddove tutto si tiene in perfetto equilibrio, nella circolarità di spazio e tempo.

Ma l’arte è anche e soprattutto ironico nonsense, sembrano affermare le opere di Ranaldi. Si intitola “Quasi” (2011) la grande cornice di legno blu che giace appoggiata alla parete bianca: uno dei lati della cornice è più corto degli altri, rendendo impossibile la compiutezza della forma geometrica. Come risolvere questo koan visivo? Never mind, sembra suggerire l’opera, perché è proprio l’impossibilità, nella sua incompiutezza, a farci anelare e a indicare la meta a cui tendere.

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