L’arte è donna, di Lea Mattarella (La Repubblica, 18-10-2015)

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«Sfruttando a loro favore la condizione di penalizzate nel dominio della grandezza e di outsider in quello dell’ideologia, le donne possono smascherare le debolezze istituzionali e concettuali; e, liquidata la falsa coscienza, possono contribuire alla creazione di istituzioni il cui vero pensiero e la vera grandezza siano sfide aperte a tutti coloro che, uomini e donne, abbiano il coraggio di osare l’indispensabile salto nell’ignoto». Termina così il pamphlet Perché non ci sono state grandi artiste? pubblicato nel 1971 da Linda Nochlin negli Stati Uniti e tradotto in Italia nel 1977 (ristampato da Castelvecchi). La Nochlin immagina Pablita, una giovane Picasso, e si domanda se il padre, il pittore José Ruiz, si sarebbe dedicato alla sua formazione artistica con lo stesso impegno e la stessa determinazione dimostrata nell’educazione del piccolo Pablo. Insomma, a far difetto, quando si tratta di donne, non è il talento ma un po’ tutto quello che serve per far sì che questo si esprima. Provate voi a diventare artiste in quell’Ottocento in cui, come ricorda Betty Friedan in Mistica della femminilità ,si diffondevano riviste che affermavamo che per le fanciulle sarebbe stato meglio svagarsi nel disegno che nella musica perché la prima occupazione è silenziosa. Era dunque necessario che a una scrittrice di romanzi come Simone de Beauvoir fosse toccato in destino anche Il secondo sesso dove si dice che donna non si nasce ma si diventa e si denuncia la costruzione di una strada predeterminata a non farti arrivare mai prima.

Non accontentarsi di essere seconde, affrontare l’ignoto, lo sconfinamento, l’ambiguità, saltarci dentro con voracità è quello che fanno le 25 artiste chiamate a raccolta da Francesca Alfano Miglietti nella mostra Sguardo di donne , aperta fino all’8 dicembre a Venezia alla Casa dei Tre Oci con un suggestivo allestimento di Antonio Marras. Non sappiamo se siano state tutte penalizzate come sosteneva la Nochlin più di 40 anni fa, certo è che sono outsider capaci di smascherare i luoghi comuni, i punti di vista scontati. Oltre al genere femminile hanno in comune la macchina fotografica; è con questa che hanno deciso di affrontare il mondo. Tutte hanno ben presente «l’assoluta centralità del dialogo con il reale» spiega la curatrice, ma in questa perfetta coscienza dell’importanza di uscire dal dato meramente autobiografico, non rinunciano a quel carattere intimo, capace di andare a fondo anche di se stesse. Operazione da cui non è quasi mai esclusa una nota sofferta. Qualche anno fa Francesca Alfano Miglietti ha curato una mostra di un gigante dell’arte italiana come Fabio Mauri. Potrebbe essere proprio una sua frase la colonna sonora di questa rassegna: «Se non esistesse il dolore da tempo il linguaggio avrebbe cessato di esistere». E se questo valesse il doppio per le donne? Se dopo tanto silenzio oggi si fosse per forza costrette a esagerare? Letizia Battaglia vive a Palermo e ha raccontato la sua città di bagliori e di miseria, di mafia e di bellezza, di luci e lutti. Nel suo bianco e nero si piange di fame e di morte. O ci si sorprende su un pezzo di pane. Per lei la fotografia è “salvezza e verità”. E chi guarda se ne accorge. Spesso il mondo di queste artiste è in posa. Come i gemelli scovati dappertutto da Martina Bacigalupo o le lesbiche e i transessuali inquadrati da Zanele Muholi. Di fronte a queste facce ti chiedi cosa sia l’identità, cosa voglia dire essere donna, dove inizia la diversità tra due individui che hanno avuto in destino un altro a fargli da specchio, o un corpo che non era il loro. Immagini delle storie, te le suggeriscono i vestiti, i luoghi, gli sguardi. E sai che non esistono risposte alle tue domande. La fotografia che apparentemente dovrebbe essere la più obiettiva e la meno interpretativa delle arti in questo viaggio al femminile conduce a un vero e proprio smarrimento del confine tra chi guarda e chi è guardato. Perché quei volti che qualcuno ha voluto dietro l’obiettivo sembrano porsi, e porti, i tuoi stessi interrogativi. Come succede con certi quadri del passato, il dialogo diventa conversazione a tre. Tu, spettatore, entri prepotentemente nel rapporto che si era già instaurato tra l’autore e il suo soggetto. Sei un altro sguardo, quello a cui spetta il compito di trascinare questo scatto in un altro tempo. Sei tu tra le malinconie del circo e degli spogliarelli di San Francisco inquadrate alla fine degli anni Sessanta da Diane Arbus o sono loro a essere ancora oggi qui? La lingua che parlano queste artiste è universale. Anche quando il set è Israele come succede nell’archivio “simulato” da Yael Bartana oppure è Buchenwald nel 1945, come avviene negli scatti di Margaret Bourke- White, che guarda con la stessa intensità la tragedia dell’Olocausto e il corteo di cappelli visti dall’alto in una via di New York. «Io vedo ciò che c’è», dice Lisetta Carmi che con la sua macchina fotografica ha mostrato Ezra Pound, malato, in vestaglia, i capelli dritti sulla testa, sequestrato dal silenzio. C’è il voyeurismo sottile di Sophie Calle e quello sfrontato di Nan Goldin, c’è la violenza vuota di Lucinda Delvin e quella di urla e botte di Donna Ferrato. C’è il pericolo, l’allarme, la potenza del racconto di vite senza sconti. Perché le donne le sanno.

 

 

 

 

 

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