“La vecchia America che salvò l’arte sostenendo migliaia di giovani”

di Paolo Valentino, Corriere della sera del 22 aprile 2020

L’appello al governo degli assessori di 12 grandi città italiane per un piano di sostegno al settore culturale stremato dal coronavirus pone un grande tema non solo all’Italia ma all’Europa e al mondo intero. Mentre i governi del pianeta stanziano migliaia di miliardi per contrastare le drammatiche conseguenze economiche e sociali dell’epidemia, il ruolo dell’arte e della cultura nella vita delle nazioni appare come il grande assente della riflessione in atto.

I nostri amministratori locali non sono i primi. Intervistato da Vincenzo Trione per «la Lettura» ora in edicola, anche Hans Ulrich Obrist, direttore artistico della Serpentine Gallery, uno dei più famosi musei d’arte contemporanea di Londra, ha lanciato dalle pagine del nostro supplemento un appello internazionale rivolto ai governi e ai direttori dei musei d’arte del mondo chiedendo un grande progetto in favore degli artisti e degli operatori culturali. «Sono giorni di grandi preoccupazioni e precarietà per tutti e anche per gli artisti. In questi tempi il ruolo delle istituzioni pubbliche dev’essere quello di sostenere l’arte e il ruolo della cultura».

Obrist ha citato uno straordinario anche se relativamente poco conosciuto precedente, indicandolo a modello di come in tempi di grave crisi un Paese democratico debba articolare la propria risposta per assicurare la sopravvivenza di una società e di un intero sistema: il New Deal di Franklin D. Roosevelt negli anni Trenta in America.

È un esempio che merita di essere raccontato nei dettagli. All’inizio del 1934 la Grande Depressione negli Stati Uniti entrò nel suo momento peggiore: un quarto della popolazione senza lavoro, milioni di bambini poveri e di famiglie senza tetto, carestia, perfino il febbraio più freddo a memoria d’uomo devastavano la fabbrica sociale americana. Mentre le prime manciate di dollari del Federal Emergency Relief Act, vero prologo del New Deal, iniziavano ad arrivare nelle tasche di lavoratori e famiglie affamati, l’amministrazione fu posta davanti a un dilemma per nulla scontato: bisognava includere negli aiuti anche gli artisti? Dopotutto, era l’argomento prevalente, non avevano un vero e proprio «lavoro» da perdere.

La risposta, diventata celebre nell’aneddotica politica americana, la diede Harry Hopkins, l’uomo che il presidente Roosevelt aveva messo a capo del più grande intervento pubblico nell’economia mai realizzato: «Maledizione, dovranno mangiare anche loro come tutti gli altri!». Nacque così il Public Works of ArtsProject(Pwap) che in soli 4 mesi mise sotto contratto 3.749 artisti, i quali produssero oltre 15.600 dipinti, murales, stampe, poster e sculture per gli edifici governativi di tutto il Paese. Soltanto in questa fase l’erario federale sborsò un totale di quasi 1,2 milioni di dollari, una media di oltre 75 dollari per ogni opera d’arte, una somma di tutto rispetto per i tempi.

Il programma entrò in funzione nell’arco di poche settimane. Gli artisti rispondevano ad annunci sui giornali, facevano la fila davanti agli uffici del Pwap per presentare le domande, dovevano provare in qualche modo di esser tali, passare un test del loro stato di necessità e venivano divisi in due categorie che determinavano il loro compenso.

Il Pwap durò due anni, sostituito da un programma molto più conosciuto, la Work Progress Administration(Wpa) che fu operativa fino al 1943. E questa volta il concetto di artisti fu ampliato anche a scrittori e fotografi: per tutti, ognuno nella specificità del suo incarico, la missione era di raccontare e documentare il Paese reale e la sua volontà di sopravvivere. Così Eudora Welty fotografò il Mississippi, l’Old Man Riverall’apice della Depressione, e Berenice Abbott completò l’iconico progetto Changing New York, nel quale immortalò le mutazioni urbanistiche e sociali della Grande Mela. Anche l’immagine più simbolica di quella tragica epopea, la Migrant Mother, pietra miliare nella storia della fotografia, fu realizzata da Dorothea Lange nel 1936 nel quadro della Wpa per conto della Farm Security Administration, l’agenzia del Dipartimento dell’Agricoltura.

Ma la Wpa ebbe molti altri meriti, rivelandosi decisiva anche per la scoperta e la sopravvivenza di giovani talenti, assicurando loro un piccolo reddito anche nel lungo inverno dello scontento: «La Wpa mi ha salvato la vita», amava dire Lee Krasner, pittrice astratta e moglie di Jackson Pollock, anche lui nel libro paga del New Deal. Con il futuro maestro dell’action painting, prima di diventare celebrità mondiali beneficiarono del programma anche i giovani Mark Rothko, Willem de Kooning, Philip Guston e Alice Neel.

Fu una stagione di incredibili opportunità. Artisti come Jacob Lawrence, che agli inizi degli anni Quaranta sarebbe diventato il primo afroamericano a vedere i suoi quadri esposti al MoMa, era poco più che ventenne quando ricevette un salario dal Wpa. Fino ad allora si era guadagnato da vivere come strillone o nelle lavanderie.

Vinsero tutti. Milioni di americani per la prima volta scoprirono che nel loro Paese c’era un’arte nazionale e c’erano gli artisti, visitando gli Art Center istituiti dal Wpa nelle città dell’Unione. Gli artisti, che si organizzarono a difesa del proprio lavoro e dei propri interessi, arrivando a dimostrare nel 1936, quando il Wpa cominciò a ridurre il numero e il costo dei contratti. Ma vinse soprattutto l’America come sistema e nazione. Come dice Obrist nel suo appello, «grazie a quell’azione uomini e donne dell’arte entrarono a far parte della comunità, riuscirono a fare ricerca e a creare opere d’arte, per molti di loro fu la prima occasione di avere un’occupazione e ottenere una commissione».

Certo non tutta la produzione fu di altissimo livello. Non a caso una parte delle opere del fondo Wpa vennero semplicemente distrutte alla fine del programma. Ma la ricerca dei capolavori non era il fine dell’iniziativa. E l’esempio ricordato da Obrist riflette perfettamente la disperata situazione prodotta dalla pandemia del coronavirus: «Se mai c’è stato un tempo in cui il mondo ha avuto bisogno di aiutare gli artisti, è questo. Abbiamo bisogno delle loro idee, visioni e prospettive in ambito sociale».

Anche perché, ci spiega Dmitrij Vilenski, fondatore del gruppo artistico russo Chto Delat, «gli artisti non possono aspettare che tutto ritorni alla normalità e poi ricominciare di nuovo a produrre come se niente fosse successo», ma devono trovare «subito azioni e forme espressive che riflettano i cambiamenti radicali che stiamo vivendo». La domanda è semplice, vale per il governo italiano, per quello francese o tedesco, e vale per l’Unione europea, che ricordiamo ha la cultura fra le sue competenze: perché nel grande sforzo per tenere a galla e far rifiorire le nostre società colpite dalla pandemia, artiste, artisti, istituzioni e operatori culturali non devono essere sostenuti finanziariamente dallo Stato così come i lavoratori dell’industria, quelli autonomi o i ricercatori? Come amava dire Otto Schily, ministro degli Interni tedesco, sia pure in un altro contesto: «Chi chiude le scuole di musica, attenta alla sicurezza nazionale».

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