La varietà dei luoghi dell’arte contemporanea: intervista ad Anna Imponente

di Matteo Scabeni (Exibart, 16 gennaio 2024)

L’opera Germinazione (2005) di Claudio Palmieri, esposta nella mostra Vesuvio Universale, Vesuvio Quotidiano, oggi nelle collezioni permanenti presso la Certosa di San Martino – Polo Museale Campania. Courtesy Claudio Palmieri, 2023

Anna Imponente ci accompagna in un viaggio tra l’Abruzzo, Palazzo Venezia e le Certose Campane, per svelare quegli spazi in cui l’arte contemporanea pervade la storia.

Il debito verso il nostro passato appare come un divario incolmabile. Come ha sentenziato Bernardo di Chartres, «Siamo come nani sulle spalle dei giganti»: la cima di una progressiva stratificazione culturale; una posizione che ci permette di osservare le cime irraggiungibili della conoscenza. Per ripagare questo debito senza tempo, ci dice Anna Imponente, dobbiamo agire valorizzando il patrimonio di cui disponiamo nel rispetto della sua origine e della sua storia. L’arte contemporanea può aiutare, in questo, a porre gli artisti in un necessario confronto con il passato, luogo da cui attingono voracemente per riflettere sulla complessità del reale. La storica e autrice ripercorre la sua carriera mostrandoci gli esempi delle collezioni di diversi luoghi: dal MUNDA, il Museo Nazionale D’Abruzzo, con sede all’Aquila, Palazzo Venezia, dove aveva sede l’Accademia del Regno Italico diretta da Antonio Canova, ai luoghi frammentari del polo museale campano, come la Certosa di San Martino o la Certosa di Padula.

Tutti questi luoghi sono stati pervasi dagli interventi di diversi artisti: Lucilla Catania, Attilio Pierelli, Luca Patella, Maria Dompè, Claudio Palmieri, Sandro Sanna, Cloti Ricciardi, Elisa Gobbo, Michele De Luca, Stefano di Stasio, Piero Mottola, Jacopo Cascella e Pietro Consagra. Attraverso il loro sguardo, sono riusciti a insistere sul ruolo necessario dell’arte in quanto veicolo eterno di libertà.

Anna imponente ritratta da Claudio Palmieri, sullo sfondo le sculture di Leoncillo Leonardi, esposte nella mostra Vesuvio Universale, Vesuvio Quotidiano, presso la Certosa di San Martino – Polo Museale Campania – dal 05/07/2019 al 29/09/2019. Courtesy Claudio Palmieri, 2023

 

Nell’intervista di oggi, intrecciamo episodi della biografia di Anna Imponente con la sua matrice poetica in quanto curatrice, per comprendere come le opere possono creare dei sistemi di significato solo se concepite nella loro unitarietà in quanto collezione in progress. Il luogo in cui questi esperimenti sono stati concepiti deve essere necessariamente lo spazio in cui queste collezioni trovano la loro collocazione e dimora.

Nell’esempio del MUNDA, che ancora oggi sembra cercare una sua collocazione, quali sono stati gli esperimenti più riusciti? Cosa hanno permesso di sottolineare nel difficile rapporto tra epoche così distanti?

«Il Museo Nazionale d’Abruzzo è molto ricco e vario. La sua identità è proprio quella di essere un museo fino a un certo punto regionale in cui le collezioni dell’Ottocento sono state potenziate proprio grazie ai manufatti tipici delle tradizioni popolari e opere d’arte contemporanea. Come Naturale di Lucilla Catania che è questa colonna che ha l’idea di poter essere anche un rudere, fa riferimento a una cultura classica occidentale, alle collezioni archeologiche.

Un’altra opera era la scultura di Attilio Pierelli in cui l’uso dell’acciaio in questa forma verticale si confrontava con la croce di Nicola da Guardiagrele che è il più grande orafo del Quattrocento. C’erano le opere Luca Patella, le sue Gazzette Ufficiali, e poi le collezioni di una fotografa in una Calabria patriarcale degli anni Trenta, che ha documentato un periodo lungo di quel microcosmo dal fascismo fino alla contemporaneità. Questa chiave dell’arte contemporanea è un passe-partout per arrivare all’antico e sentire l’arte come qualcosa di vicino, mostrando ciò che è l’invisibile.

Il chiostro di Palazzo Venezia con la scultura Delfino di Lucilla Catania, donata dall’artista. Courtesy Palazzo Venezia, 2023

Ora le collezioni hanno altre collocazioni. Poter ricollocare queste opere che abbiamo menzionato darebbe senz’altro un’anticipazione interessante di qualcosa che altrimenti si è perso col terremoto».

Nel caso di Palazzo Venezia, lei citava la riscoperta del bunker mussoliniano, perché è così importante rendere questo spazio fruibile? Che cosa rappresenta questa collezione?

«Il bunker è un tabù, un luogo anche sinistro. Estremamente privato, piccolo, incompiuto, dove Mussolini aveva immaginato di doversi rifugiare, forse con la sua Claretta. Una rilettura di questa stratificazione della storia, estendendo anche un velo di bellezza, di pietas nel senso latino del termine.

C’è un corridoio dove ci sono due pannelli simmetrici di Michele De Luca, che vuole creare una prospettiva fatta di luce, infinita. Poi un pavimento mosaicato firmato da Sandro Sanna, che usa queste costruzioni di spazi altri, ancorati all’uso della tradizione romana del cocciopesto. Quando si entra si ha davanti una porta col profilo di Canova e con la trascrizione di una lettera di Canova a Napoleone, Vas Canova di Luca Patella. L’attaccapanni era questo albero intimidente, realizzato da Claudio Palmieri.

La Sala Canova presso Palazzo Venezia, successivamente al restauro, con il tappeto di Elisa Gobbo Amore temerario. Sullo sfondo, un tavolino di Maria Dompè e la metà destra di La sera del mago di Stefano di Stasio nel vano della finestra. Courtesy Palazzo Venezia, 2023

Nella Sala Canova, Cloti Ricciardi ha realizzato uno dei piani di calpestio trasparente, fatto di velature, accanto ad un’opera di Pietro Consagra, acquistata dagli eredi, i dipinti donati da Claudio Verna e quelle di Ilia Peikov. Si è creata era una collezione in progress, di artisti con storie diverse. All’interno del chiostro degli aranci vi sono due sculture di Lucilla Catania, una è stata utilizzata per indicare l’archivio fotografico e si collega al lapidarium con l’uso del travertino. Nel cortile che ora è aperto al pubblico, ci sono dei sedili fatti da Jacopo Cascella, Andando e Stando. Vi era una sperimentazione di arte contemporanea. Non vorrei dimenticare Stefano Di Stasio, che negli spazi della sala Canova ha realizzato un’opera ad affresco, accanto al tappeto realizzato da Elisa Gobbo».

 

Il Polo museale Campania, invece, che cosa è riuscito a costruire attraverso i suoi interventi? E soprattutto sono riusciti, in un certo senso, a rinnovare quei luoghi, questi interventi?

«Da questo punto immaginativo meraviglioso che guarda tutta la città, che era il Belvedere della Certosa di San Martino, l’idea era, sulla scorta di un racconto breve, L’Aleph di Napoli di Silvio Perrella, di creare un parco poetico, di invitare degli artisti a creare delle opere che accompagnassero questo senso di visionarietà.

L’opera di Claudio Palmieri, questa germinazione, ha aperto questo percorso. E poi un’opera di Piero Mottola, un artista che sfrutta la sonorità e l’emotività delle reazioni di voci che lui registra e che creano come una musica che si immaginava le emozioni del pubblico che guarda dall’alto spazio aperto, senza confini, questo senso di infinito che era lo stesso effetto creato da Giovanni Anselmo. Anche Altum Silentium, che è nella Certosa di Padula, è collocata in uno spazio esterno dove l’artista, Maria Dompè, ha utilizzato dei reperti che erano lì sul posto creando una struttura che plasma il terreno con delle curve che indicano un movimento».

La sliding door di Luca Patella, Vas Canova, realizzata per Palazzo Venezia. Courtesy Palazzo Venezia, 2023

 

Per l’espansione di queste collezioni indirizzate al contemporaneo, quale è la necessità? Perché espandere nel contemporaneo delle collezioni di realtà altre?

«Noi abbiamo un debito di riconoscenza verso il passato ed un modo per saldarlo è aggiungere valore in questi luoghi che hanno avuto delle committenze all’avanguardia, coraggiose. Ci vuole tutta la delicatezza della comprensione del luogo senza colonizzare queste realtà, si può osare e chiedere questi interventi che devono essere letti senza essere predominanti rispetto al contesto. Se lei pensa alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, a come gli allestimenti sono stati continuamente mutati e cambiati a seconda di chi ha diretto questo spazio, la firma di una direzione è il cambiare, il rileggere le collezioni in maniera differente. Si può immaginare poi in una struttura così variegata e non semplice, da controllare, come può essere una struttura di polo, cioè di tanti luoghi, di tante realtà diverse».

 

Nel corso della sua carriera, lei ha costruito nello spazio delle forti intuizioni letterarie, ne discutevamo anche a proposito della mostra di Favoloso Calvino. Quale è la funzione di questa pratica?

«Credo che il modo in cui uno scrittore legge le opere d’arte è molto interessante per uno storico, perché è meno inibito. Mentre lo storico si ferma alla realtà, lo scrittore ha la capacità di entrare nell’opera in una maniera molto più empatica e creativa.

Lucilla Catania, Naturale, 2007, Corte del Palazzo Cinquecentesco de L’Aquila. Credits: Stefano Fontebasso de Martino

 

Penso a L’altro nome, del premio Nobel Jon Fosse, che descrive quelli che sono i sentimenti o il sentire di un artista astratto contemporaneo. Anche a proposito di Vargas-Llosa, che parla di Gauguin ne Il paradiso non è qui. Mostrano questa apertura ai mondi altri, forse proprio in un periodo in cui siamo così immersi in un localismo. Come la civiltà cinese è stata luogo di riflessione di altri artisti su cui in questo momento mi sto dedicando. Siamo ingabbiati in situazioni che limitano e che ci limitano e per questo l’arte è importante. Se si va a vedere una mostra, vale la pena uscirne un po’ cambiati.

Nella mostra di Calvino, quello che è interessante riguarda la forte similitudine tra la grafia di Calvino e quella di Giulio Paolini. È proprio la scrittura, il tramite, come nell’esperienza orientale. La calligrafia era quell’arte che accomunava il letterato e il pittore senza distinzione. L’unità delle arti è credere che ci sia un’unica origine poetica, creativa, l’intuizione della realtà. Un libro che ho scritto, che si chiama Yamato, sul Giappone, è stato utilizzato da Maria Dompè, che ha scolpito nel marmo frasi di questi miei ricordi».

 

https://www.exibart.com/arte-contemporanea/la-varieta-dei-luoghi-dellarte-contemporanea-intervista-ad-anna-imponente/

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