“Il volgare adesso è proprio bello”, di Vincenzo Trione (Corriere della sera, 27 agosto 2016)

cappello__mgthumb-internaCi sono alcune categorie estetiche che spesso ritornano nel nostro lessico quotidiano. Volgarità, ad esempio. Cos’è volgare, per voi? Quel talk show in cui il confronto tra gli ospiti si trasforma in un’arena? Quell’abito che presenta figurazioni esuberanti? Quel vociare dei turisti che ci disturba mentre passeggiamo tra le sale di un museo? Quella ossessiva mania del mettersi in vetrina sui social che caratterizza le nostre vite e scandisce la nostra quotidianità? O, infine, il culto esasperato del corpo o il “virus” dei tatuaggi?

Il catalogo potrebbe accogliere ancora altri gesti e comportamenti simili. Con un rischio: riproporre luoghi comuni. Considerando la volgarità solo come sinonimo del cattivo gusto e del kitsch. Una grande mostra londinese (dal 13 ottobre), invece, ci invita a cogliere aspetti ancora inesplorati di questa controversa categoria critica. Curata da Judith Clark e da Adam Phillips, ospitata dalla Barbican Art Gallery di Londra, The Vulgar si dà come inatteso riattraversamento di significative regioni dello stile moderno e contemporaneo, suddiviso per sezioni monografiche (“Classic Copies”, “The Unique”, “Too Much 18th Century and Ceaseless Century”, “Showing Off”, “Too Big”, “Puritain”, “Too Popular”, “The Vernacular”, “Impossible Ambition”, “Oes and Spangles”, “More Bling”, “The Vulgar Now”). Il centro dell’esposizione è costituito dalla moda: ci imbatteremo in abiti di Madame Grès, Chanel, Schiaparelli, Yves Saint Laurent, Dior, Galliano, McQueen, Moschino, Prada, Gautier, Chalaian, Lagerfeld, Viktor & Rolf, Westwood. Rilevanti anche alcuni episodi artistici scelti: incontreremo opere di Dalí, Warhol, Haring, Murakami. Ma la “lista” delle voci coinvolte potrebbe estendersi pure a personalità come Hirst, Fabre e Vezzoli.

Adottando un taglio originale, i curatori della mostra si interrogano su un concetto difficile da definire e da perimetrare come quello di volgarità, spesso demonizzato e guardato con diffidenza dalla critica, che lo ha solo sfiorato per accenni marginali. Nel portarsi al di là di certe letture facili e superficiali, Clark e Phillips rimodulano quel concetto in una prospettiva inedita, positiva: lo reinterpretano; ne riattivano significati celati; ne svelano angolazioni oscure e dimensioni perturbanti. Si tratta di un’idea estetica che lambisce – senza tuttavia aderirvi – i territori liquidi del kitsch, del trash,dello sfarzoso e del brutto, delineando geografie poetiche e formali alternative.

Forse potrà apparire azzardato. Ma, non senza manierismi, gli artisti (e gli stilisti) radunati nella mostra londinese sembrano agire come lontani e involontari eredi di Dante e di Giotto. Pensano il loro lavoro come declinazione audace e scandalosa della nozione di “volgare” (nell’accezione medioevale). Situandosi tra ricerca dello choc e tensione spiritualistica. Per un verso, essi scelgono di non replicare soluzioni già accettate; lanciano una sfida al buon gusto, al perbenismo estetico, al conformismo puritano; violano convenzioni e regole; infrangono ritualità e aspettative. Per un altro verso, ricorrendo a esagerazioni e a mascherate, mirano ad alimentare per vie segrete in chi osserva domande su problematiche esistenziali “decisive”. Servendosi di artifici seduttivi e di involucri cromaticamente vivaci, vogliono comunicare immediatamente con il pubblico, per catturarne l’attenzione su alcune questioni “assolute”. Non frontalmente, ma lateralmente. Non con snobismo intellettualistico, ma con leggerezza. Due casi esemplari. Warhol: indulge in rappresentazioni patinate, ispirate all’universo dei media, per lasciare affiorare struggenti ansie metafisiche.Hirst (non in mostra a Londra): espone un cranio tempestato d’oro, con un diamante rosa a goccia sulla fronte, per alludere a una sublimazione della morte.

The Vulgar, dunque, insinua in noi una domanda paradossale: e se il nostro fosse il tempo della bella volgarità?

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