De Chirico. Il secolo breve della Metafisica, di Fabrizio D’Amico (La Repubblica, 15-11-2015)

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È la pittura metafisica per antonomasia, quella creata da Giorgio de Chirico in un pugno d’anni, grosso modo raccolti tutti nel secondo decennio del ‘900, a Parigi e Ferrara soprattutto. Un’idea di pittura che era giunta già a definitiva maturità tra il 1911 e i primi mesi del ’15, a Parigi: dove essa era sbocciata pienamente – senza che molti, neanche nella capitale francese, ne prendessero atto, peraltro. Una pittura che fece del mondo un eterno enigma; nella quale, in vaste, silenziose piazze deserte le statue vivevano la loro vita di pietra, proiettandovi lunghe ombre ansiose e cariche di memorie classiche o letterarie. Un’esistenza assorta, nata incongruamente ai piedi di arcate immense e mute; ovvero ove la vela di una nave, o il fumo di un treno, passavano lontano, sull’orizzonte occluso da un alto muro

cieco, testimoniando forse la malinconia dell’esule senza patria. Poi venne la guerra: e i due “Dioscuri” del nostro XX secolo – de Chirico e il fratello Alberto Savinio – decisero di far rientro in Italia. Arruolati, furono aggregati a un battaglione di fanteria e inviati a Ferrara. Fu qui che nacque una seconda, diversa metafisica: fatta di incastri coloratissimi di squadre e righelli, di bastoncini di liquirizia, di rocchetti di filo, di pani in croce latina, come è il pane ferrarese, di biscotti nelle loro scatole azzurre. Quella metafisica che affidava lo spaesamento, la tristezza, lo stupore di chi guarda, al matrimonio improbabile e talvolta ironico fra cose d’ogni giorno, raffigurate in uno spazio senz’aria, ossessivamente misurato da vane prospettive geometriche. Era quella la metafisica che Giorgio de Chirico inventò allora, e che trasmise al più esperto Carrà, reduce da una stagione futurista e da un successivo invaghimento primitivista e giottesco; al giovanissimo de Pisis, ancora incerto se farsi pittore; e a Morandi, che pur non conobbe de Chirico se non a guerra conclusa, a Roma.

De Chirico a Ferrara. Metafisica e avanguardie è la mostra che documenta questi pochi anni (1915-1918), altissimi, della pittura italiana: affiancando all’opera di quel magico tempo dechirichiano quella di coloro che furono allora i suoi sodali italiani, e ricordando anche, attraverso pochi ma ben scelti esempi, l’opera di coloro che, in Europa, subirono più tardi il fascino della sua pittura: da alcuni interpreti della Nuova Oggettività tedesca a Man Ray, fino ai primi interpreti del surrealismo, fra cui Ernst, Dalí, Magritte. Voluta da Maria Luisa Pacelli, direttrice delle Gallerie Civiche ferraresi, e curata con l’usuale competenza e perizia da Paolo Baldacci e Gerd Roos, la mostra è notevolissima, e davvero rara per i prestiti prestigiosi di cui si giova. È aperta adesso a Palazzo dei Diamanti (dove resterà fino al 28 febbraio); e con essa Ferrara Arte, che l’ha promossa insieme alla Staatsgalerie di Stoccarda ove sarà in seguito trasferita, torna ai livelli espositivi che le sono stati usuali per tanti anni. Si va di capolavoro in capolavoro. Per primo, I progetti della fanciulla (dipinto da de Chirico nel ’15, poco dopo l’arrivo nella città estense; e proveniente oggi, dal Museum of Modern Art di New York), con il guanto appeso a occupare metà della strana, simbolica immagine: come era avvenuto, a Parigi l’anno precedente, a Le chant d’amour.

Ma ora un’ombra strappata alla realtà s’insinua nella nuova composizione, e un esatto, quasi iperrealista chiaroscuro dà volume e certezza plastica agli oggetti riuniti sotto la torre del castello ferrarese: una scatola verde, e alcuni rocchetti di filo, riuniti assieme a sorprendere, a spaesare.

Forse con minor ansia che non fosse a Parigi. Forse adesso de Chirico, dopo un impatto esistenzialmente difficile, si va abituando all’antica, “magica” città che lo accoglie. Qui ha la madre accanto, come sempre; e il fratello, che ne condivide e ne agevola i proficui rapporti con poeti e letterati. Ha una casa; e per amico quel giovane altolocato, Filippo de Pisis, che qualche volta lo esaspera con il suo egocentrismo, ma qualche altra lo incuriosisce narrandogli vecchie, strane storie ferraresi di cui sembra sapere tutto; e che lo conduce volentieri a esplorare i segreti nascosti nella propria “stanza delle meraviglie”, da cui de Chirico trae certamente qualche suggestione. Poi, del ’16, sempre di de Chirico sono in mostra L’angelo ebreo, e Il saluto dell’amico lontano, con l’occhio bianco e nero che inquieta, spuntato d’improvviso in mezzo a triangoli e squadre che stanno per diventare un manichino, o sopra un pane croccante, di cui par di sentire il profumo, tanto sembra vero. E finalmente del ’17, del ’18, i “grandi manichini”: Il Trovatore, Ettore e Andromaca, Il grande metafisico, Le Muse inquietanti, con quel pavimento che non finisce mai, indimenticabile. Quadri memorabili del secolo, non solo italiano; che tanto hanno dato a tante avanguardie e neo avanguardie.

Attorno stanno dipinti di Carrà e di un Morandi “metafisico” (qui documentato, dopo una delle rare Nature morte del ’16, dalla Natura morta con il manichino spezzato di Mamiano di Traversetolo, e dalla Natura morta con manichino del Museo del Novecento di Milano): non ancora giunto alla sua più alta maturità degli anni Venti – qui documentati, dalla Natura morta dal tavolo tondo, che testimonia già l’adesione del pittore al clima di Valori Plastici – ma già ora tutto diverso da de Chirico. Infine Soffici, Sironi, de Pisis.

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