A colloquio con BRUNO CECCOBELLI, uno dei protagonisti della collettiva “La pittura dopo il Postmodernismo”, a cura di Barbara Rose

© foto Luciano Romano

La Mostra ”La Pittura dopo il Postmodernismo“ alla Reggia di Caserta, curata dalla celebre storica dell’arte statunitense Barbara Rose, è la terza edizione del progetto, inauguratosi prima a Bruxelles nel 2016 e poi presentato a Malaga nel 2017. L’esposizione comprende oltre 100 dipinti realizzati da affermati artisti statunitensi, belgi e italiani.

In occasione di questa mostra, Bruno Ceccobelli si racconta su Hidalgoarte.

 

  • Marcel Duchamp, nei primi anni del Novecento, sembra sancire la morte della pittura. Nel 1992, Fukuyama, con il libro The End of History and the Last Man, dichiara la fine della storia. Eppure pittura e storia sopravvivono, come sembra dimostrare la splendida mostra alla Reggia di Caserta. Qual è il tuo punto di vista di pittore e umanista?

 

Certo la pittura è morta con  Duchamp e ancora prima con la fotografia e con il cinema, ma non per questo sono morti i pittori. Con naturalezza, come un atto d’amore o di poesia e come il procreare figli, così ci sono la voglia e la capacità di rappresentare e presentare, con gesti e con segni, l’innata capacità, insita nella coscienza umana di comprendere, comunicare e tramandare, attraverso l’espressione della bellezza; questo è nel trattato della vita.

Per quanto riguarda la storia, il punto è diverso, perché la storia presenta una convenzione sociale come il tempo e riguarda la gestione del “lavoro” dell’uomo e del suo sfruttamento, cioè riguarda l’amministrazione del “potere” e la forza del linguaggio che lo  contraddistingue nelle sue contraddizioni: come ad esempio la logica del guadagno.

Dunque la Storia, per essere morta, dovrebbe aver superato il sistema capitalistico e ad occhio e croce non mi sembra vero.

 

  • Parlaci dell’opera presentata in questa occasione. Cosa rimane della tradizione, cosa invece ti senti di esserti messo alle spalle? 

In questa sontuosa esposizione a Caserta, capitale dell’epopea Barocca, ho presentato tre lavori, due nuovi e uno degli anni Ottanta, per dimostrare la coerenza poetica del mio lavoro che non ha mai avuto uno stile, ma ha avuto continue riprove di coerenti forze espressive ed emotive interne alla sue strutture simboliche.

Quando si parla della tradizione pittorica, per me, è come parlare dei miei genitori naturali e putativi, quindi è un discorso sacro.

La lezione della Storia dell’Arte rimane e rimarrà sempre nella coscienza di chi crede nel bello, negli ideali e nel significato profondo delle cose e della vita. Non credo che esista un progresso sia nella morale che nella cultura e sia nella tecnica. Il mercato ci vende tutti questi ammennicoli meccanici che ci sembrano cose nuove, ma in realtà sono sempre le stesse vecchie cose trasformate, per darci “in rapidità” più fregature, che poi schiavizzano chi le usa e chi ci crede.

 

Bruno Ceccobelli, ”Sirene”, 1983, catrame argento cera e smalto su carta fotografica, 210 x 320 cm circa photo coutesy Mimmo Capone
  • Insieme a te sono in mostra altri due protagonisti della Nuova Scuola Romana, Gianni Dessì e Marco Tirelli, compagni di avventura negli anni ‘80-‘90. Cosa senti ancora di condividere con  loro ?

Nell’ampia esposizione della Reggia ci sono diversi colleghi italiani e romani con i quali ho condiviso strettamente, negli anni passati, delle militanze di pratiche poetiche e affinità elettive; con loro ho partecipato a sviluppare il credo di un lavoro praticato sulle mani e sullo sbaglio delle mani e sulla crescita interna dell’opera che, una volta terminata, fa la crescita spirituale dell’artista.

Voglio qui ricordare tutti i partecipanti di questa mostra internazionale: Nino Longobardi, Roberto Pietrosanti, Roberto Caracciolo, Rossella Vasta, Elvio Chiricozzi e Arturo Casanova. La cosiddetta Officina San Lorenzo di Roma e stata ed è tutt’ora un vivaio di ricerca e condivisione molto importante per la città e per l’arte italiana.

 

  • Barbara Rose in un’intervista dichiara di voler recuperare la dimensione meditativa della pittura, per un’arte che non si consumi come una merce “mordi e fuggi”. Riconquistando anche il rapporto con lo spazio del museo che –  sono sue parole – è come una Chiesa, un luogo di raccoglimento, di preghiera laica. Sei d’accordo?

Nel bel “manifesto” sullo stato della pittura dopo il Post-Moderno c’è scritto molto chiaramente che la pratica della pittura è oggi una pratica metaforica di riflessione e di contemplazione; non si dipingono le figure o le forme astratte, non si trattano la materia informale o le formule concettuali per rimirare il visibile, insomma non per fare decorazione o per vendere a caro prezzo, ma per  concentrarsi sui rapporti intrinsechi dell’opera, cioè sulla sua parte  invisibile e sviscerarne i contenuti, sempre nuovi se l’opera è vera.

L’opera è fondamentale per costruire l’artista,  l’arte serve per essere migliori, c’è un appagamento impagabile nella creatività perché si mette in atto il rapporto con l’eterno, si incontra quello che io chiamo: il <<Colmo Calmo>>, una pacificazione universale.

Sì, sono molto d’accordo con Barbara Rose su tutto quello che dice, l’unica cosa sulla quale forse non sono d’accordo è sull’intendere la “preghiera laica”, io non mi ritengo un laico, perché è troppo faticoso negare i buchi neri o l’unità Platonica, sono un credente e un fedele-fetente, credo in tutto, soprattutto esistono gli altri, anche se io mi sento un extraterrestre.

 

  • Se la pittura non è morta, come dimostra questa esposizione, qual è secondo te il suo futuro?

L’arte è il “la” 432 mhz, il futuro dell’arte è il futuro della vita, l’arte come speranza, l’arte come visione futura, l’arte come miracolo, la messa in scena di segni, “colori-dolori” che ci vogliono indicare una direzione, un sapore, la potenza della passione… per donare la certezza all’unico “disegno”, quello divino.

Anch’io, devoto a questa causa, mi piacerebbe essere, mentre sono all’opera, quella frase del critico d’arte novecentesco Nello Tarchiani con la quale descrisse il Beato Angelico: «un primitivo sui generis tanto si rivela esperto disegnatore e accorto coloritore, anche nei suoi sogni di Paradiso».

 

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