Un viaggio nello spazio di mezzo, “The space in between. Marina Abramovic and Brazil”, di Silvia Tusi

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«Mi piace vivere in quello che definisco “spazio di mezzo”, che per me è uno dei luoghi più creativi per un’artista. È dove si abbandonano tutte le abitudini, dove ci si apre completamente al destino e a nuove idee. Lì tutto è molto vulnerabile perché si esce dalla propria zona di controllo».

Il documentario (diretto da Marco Del Fiol) sul viaggio spirituale di Marina Abramovic in Brasile, intrapreso tra il 2012 e il 2015, è un piccolo e prezioso sunto – di soli 90 minuti – in merito al concetto sconfinato di Arte. All’interno ci sono tutti i temi fondanti della nostra esistenza: il rapporto con noi stessi e con l’altro, la volontà di ricongiungersi con la Natura, l’inevitabile incontro col dolore e la possibilità di entrare in uno stato di consapevolezza più profondo e sano. Un messaggio così variegato, estremamente ricco di spunti, idee, illuminazioni ed emozioni, non poteva arrivarci se non da un’artista che ha messo in discussione se stessa per tutta la vita, sperimentando il dolore senza veli, esponendosi al pubblico in tutta la sua nudità fisica ed emotiva, percorrendo con coraggio la vita artistica e personale senza tralasciare nulla e andando a guardare in posti impensabili, dove sembra non ci sia proprio niente di interessante da scrutare.

In fondo l’Arte è questo che fa: ci mostra cose che non siamo in grado da soli di vedere o di sentire. Il viaggio dell’Abramovic in Brasile è una performance continua, in un susseguirsi di cerimonie, riti, incontri con curanderi, ayahuascheri, persone come lei in cerca di una risposta al dolore emotivo, fisico, mentale. Lei stessa durante il film afferma: « Mi sono sempre chiesta quale sia il collegamento tra rituali e performance e perché sono così affascinata dai rituali, perché per me è così importante osservarli, parteciparvi e trarne insegnamento. Credo che il collegamento sia la trasformazione. Dopo aver partecipato a un rituale non sei più lo stesso, impari qualcosa, sei diverso. Una performance è molto simile, si scrive un copione e durante la performance ci si confronta con qualcosa che io chiamo Io Superiore. È una grande sfida con se stessi: più forte è la performance più la trasformazione è profonda».

Marina intraprende il suo viaggio per una delusione d’amore. Vuole liberarsi dal pensiero ossessivo del suo ex compagno, che l’ha lasciata per un’altra. Una storia all’apparenza banale eppure così vera, onesta, reale. Può accadere di pensare che un’artista famosa, affermata, radicata nella sua creatività, non abbia questo genere di problemi, tuttavia è un essere umano come chiunque altro, con una vita normale, abitudini, piccoli eventi quotidiani, il dolore per un amore finito, la voglia di voler andare avanti e non riuscire a farlo. In tutto questo, il suo rapporto con la creatività la porta certamente a cogliere piccole sfumature importanti negli incontri con sciamani, medium, medici erboristi e vecchi saggi. Sfumature che lei è pronta a mostrarci con lo stupore di un fanciullo, gli occhi sgranati, il sorriso un po’ sornione e una luce eccitata che le illumina il volto.

Non solo affronta paure e dolore, ma quest’esperienza cambia completamente il suo rapporto con l’arte: « Non credo che in natura serva l’arte. La natura è già perfetta senza di noi. Abbiamo bisogno dell’arte nelle città. Ci serve l’arte nelle città, dove gli esseri umani non hanno tempo. Nelle città che sono inquinate. Nelle città dove c’è troppo rumore. Dobbiamo attingere esperienze dalla natura e trasmetterle nelle città. Ho sempre creduto che l’arte abbia la funzione di ponte. Per collegare persone di diversa estrazione sociale, con diverse fedi religiose, di diverse razze, ma è anche un mezzo di comunicazione tra il mondo fisico e il mondo spirituale. Oppure semplicemente tra due esseri umani».

Ho trovato questa dichiarazione essenziale ed estremamente lucida, soprattutto in quanto detta da un’artista che per tutta la vita ha utilizzato l’Arte come mezzo di comunicazione e trasmissione delle proprie emozioni. L’Arte serve nel momento in cui ci discostiamo dalla Natura, da noi stessi, da quello che è il nostro sé più profondo. Perché l’Arte ci mostra il percorso che possiamo intraprendere per capire cosa siamo venuti a fare qui e perché ci siamo venuti, chi sono le persone con cui veniamo in contatto e come possiamo superare i conflitti ed evolvere. Ci mostra la via per tornare a casa.

Marina Abramovic sembra aver trovato questa via e la sta percorrendo come tanti di noi, incespicando, fermandosi, guardandosi indietro, esitando tra due svolte, ma continuando a muoversi e ad andare avanti, in modi sempre diversi e via via più adatti al suo passo. Alla fine del film, mentre si dirige all’interno di una grande caverna scavata nella roccia, spiega: « Ho capito che devo dare al pubblico gli strumenti per sperimentare il proprio io. Devo solo mimetizzarmi, devo fare come da guida, perché io mi esibisco sempre davanti al pubblico, sono legata al pubblico, è il mio specchio, e io sono lo specchio del pubblico. Tutti hanno vissuto dei traumi, tutti provano solitudine, tutti hanno paura della morte, tutti soffrono. Io dono loro una parte di me stessa e loro donano a me una parte di se stessi. L’unico modo in cui possono capire a livello profondo in cosa consista la performance è facendo il loro viaggio personale. Mi sto allontanando completamente dal pubblico. Il pubblico è l’opera».

http://www.thespaceinbetweenfilm.com/

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