MARINA ABRAMOVIC. Un’eroina fragile, di Valentina Gramiccia

ho-fatto-parte-di-una-performance-di-marina-abramovi-1442394514L’artista (a parte le non poche eccezioni) è un eroe. Ma un fragileroe. E’ un eroe perché sfida la consapevolezza della propria finitudine attraverso il suo lavoro, sperando che gli sopravviva. È fragile proprio perché consapevole della propria finitudine. Come tutti gli uomini, più o meno. Anzi, fra gli uomini l’artista è forse il più sensibile e quindi il più vulnerabile. Un po’ come il guaritore ferito di Gadamer, quel medico, cioè, che per poter curare i suoi malati deve aver sperimentato e sconfitto il dolore, alla stregua di Chirone, maestro di Esculapio.

Marina Abramović (Belgrado 1946) è figlia di due eroi della resistenza al nazifascismo. E’ una grande artista, fra le protagoniste indiscusse dell’arte performativa del secondo Novecento (lady performance, la chiameranno). Un donna alta e bella, dal volto severo e dallo sguardo austero. Un’eroina non solo perché figlia di eroi, ma anche perché, attraverso il suo lavoro, a partire dagli anni Settanta del Novecento, ha ampiamente doppiato i confini dell’arte tradizionale. Insieme ad artisti come Joseph Beuys, Vito Acconci, Gina Pane e tanti altri, ha dimostrato che si può fare arte anche senza pennello o scalpello (o media tecnologici). Arte allo stato puro, che si mischia con la vita. Con l’angoscia e il dolore. Arte che rifiuta ogni semplificazione. Che dimostra come forza e fragilità tendano a coesistere. Come diceva San Paolo: «Quando sono debole è allora che sono forte».

Ci sarà il tempo della forza. Imponderabilia (1977), The lovers (1988), Balcan Baroque (1997) sono solo alcune delle memorabili azioni dell’artista serba in cui si mette “a nudo” in pubblico; attraversa 2500 km a piedi per mettere in scena la separazione dal proprio compagno dell’epoca Ulay; si issa su un cumulo di ossa animali per lavarle, esorcizzando gli orrori della guerra. Finché la forza muscolare e la resistenza fisica diventano silenzio e meditazione in The artist is present (2010).

032-marina-abramovic-theredlistCi sarà poi il tempo della fragilità. Marina Abramović non mette più a nudo se stessa ma una cantante pop come Lady Gaga. Non macina più chilometri a piedi per dire addio all’amore di una vita ma si “riposa” indossando un pigiama per la campagna di Costume National. Finché alla Serpentine Gallery di Londra decide di sottrarsi all’azione stessa, inaugurando una performance in cui per 512 ore l’artista non farà assolutamente niente (Nothing).

L’esperienza performativa dell’artista serba sembra dimostrare la multiforme produttività del rapporto fra sofferenza e creatività e più in generale la natura misteriosa e fondativa della relazione che esiste fra consapevolezza del limite e tendenza all’assoluto, all’infinito, all’eterno. Ma dimostra anche quanto oggi questa relazione poggi su equilibri instabili e fortemente condizionati non solo dalla propria coscienza e dalle proprie origini, ma anche dai destini della storia collettiva, dalle leggi del mercato e della comunicazione e soprattutto dalla seduzione esercitata dai media che preferiscono promuovere un’artista indebolita ma ostinatamente egotica piuttosto che una valchiria d’avanguardia.

Pascal parlava dell’uomo come «una canna, la più fragile di tutta la natura, ma una canna pensante». Speriamo per questo che Marina Abramović si desti dal letargo e riponga presto il pure elegantissimo pigiama di Costume National.

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