“La musica è come la vita. Si può fare in un solo modo: insieme”

di Valentina Gramiccia

 

Qualche giorno fa ci ha lasciato un grande musicista che ha saputo trasformare il peso della sua fragilità in una potente risorsa, una leva grazie alla quale ha spostato gli equilibri fra i limiti del corpo e le infinite possibilità della mente, della creatività, dell’arte. Era giovane, troppo giovane. Ha lottato con una patologia complessa che, dopo una lunga battaglia di dolore, gli ha concesso la pace della fine, nella sua casa di Bologna a 48 anni.

Umberto Galimberti, in molteplici occasioni di dibattito e nel suo libro “Il corpo” (Feltrinelli, 2013), in relazione al rapporto fra l’Io e il corpo, sostiene la perfetta coincidenza fra i due. Io non dico: “Ho il corpo stanco”, ma piuttosto “Io sono stanco”. In opposizione critica nei confronti della secolare condanna della cultura dualistica che ci ha abituati e costretti a vedere separati corpo e anima. Questa impostazione viene da Platone, quindi dalla Grecia antica. Allora si pensava che il processo gnoseologico (relativo alla conoscenza) volto alla costruzione di un sapere solido e universale fosse invalidato dai limiti del corpo (quest’ultimo è fragile, si può ammalare, è attraversato da umori e sentimenti, ecc.). Per farlo bisogna ragionare con i costrutti della mente (con numeri e idee). Platone imposta così quello che sarà il pensiero scientifico. Qui inizia la svalutazione del corpo perché non è affidabile nelle sue informazioni. Il concetto di “anima” nasce solo nel 400 con Agostino, il quale trasferisce l’eredità platonica nella cultura giudaico-cristiana che fino ad allora ignorava il concetto di anima, nobilitandola al punto tale da farne il luogo dell’identità personale: Io sono anima (non corpo…).

Ecco, Ezio Bosso era figlio di Agostino: era tutto anima. O meglio, visto che anima e corpo sono inseparabili, da quando era malato il corpo gli serviva a dimostrare che le sue menomazioni erano irrilevanti. Era lieve come il respiro delle sue note. Si definiva un «uomo con una disabilità evidente in mezzo a tanti uomini con disabilità che non si vedono».

L’universo della musica non poteva che essere il luogo elettivo della sua espressione, considerato il suo punto di vista sul mondo: includente, unitario umanistico, insofferente ai confini e dichiaratamente europeista. «Io in una sera – diceva – quando dirigo o suono, ho la fortuna di poter essere tedesco, inglese, austriaco, ceco o polacco pur restando con orgoglio italiano. Partecipare a un’Unione diventa una forma di liberazione vera e propria, è l’opportunità di trascendere nell’idea di “altro”… Sono me stesso e sono insieme all’altro. Sono unito». Lo stesso spirito ha avuto modo di esprimerlo in occasione di un giorno della memoria, quando pubblicamente si espresse cosi, ragionando su che fine avrebbe fatto durante l’olocausto in ragione della sua disabilità: «mi avrebbero messo un nero, quello per gli Asociali, che erano i “disabili” o prostitute, i malati o semplici oppositori: i diversi ci chiamavano. Ho memoria del rosso per i comunisti, gli anarchici e gli oppositori politici fossero anche sacerdoti. Del giallo per gli ebrei. Del viola per testimoni di Geova. Ho memoria del marrone degli zingari e del blu per i tedeschi antifascisti. Ho memoria del rosa degli omosessuali. Erano triangoli. Erano i miei fratelli e le mie sorelle. A volte facevano la musica come me. E io sono tutti loro. Sono tutti quei colori. Per questo ho memoria di quei triangoli e continuerò ad averla. Perché sono tutti quei triangoli. Lo siamo tutti. E quindi avrò memoria. Oggi come ieri, come domani».

Questo era ed è nella nostra memoria Ezio Bosso. Nasce a Torino, figlio di una famiglia di operai. Si appassiona al piano da bambino e adolescente fugge in Francia debuttando come solista a soli 16 anni. Ma l’incontro con Ludwig Streicher, celebre contrabbassista austriaco, segna il suo destino e gli apre le porte dell’Accademia di Vienna dove studierà contrabbasso, composizione e direzione d’orchestra. Ci sarà poi l’incontro con Claudio Abbado, grande maestro e amico di cui tramanda l’eredità dopo la sua scomparsa, proseguendo l’attività dell’Associazione Mozart 14, nata per portare la musica come terapia nei luoghi del dolore come carceri e ospedali.

Il suo strumento elettivo è il piano e la sua maestria si esprime nella direzione d’orchestra a capo della Fenice di Venezia e del Comunale di Bologna finché, dopo gli anni ruggenti della Europe Philarmonic (prima ancora Stradivari Festival Chamber, suo celebre gruppo di musicisti) le sue mani e le sue dita, provate dalla malattia, lo costringono ad abbandonare il pianoforte. Ci lascia durante un momento difficile ma la sua memoria ci sarà indispensabile per ripartire e ricostruire.

Speriamo possano nascere altri uomini come lui. Non sarà facile.

 

 

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