Abbiamo bisogno di “pensieri lunghi”. Anche Hidalgo, come fa Andrea Fogli nel suo intervento, formula ai suoi lettori i migliori Auguri di fine anno. Grazie per averci seguito. Continuate a farlo e aiutateci ad estendere la rete dei nostri contatti.

di Andrea Fogli

“Pensieri lunghi”, così indica il sottotitolo di un libro anomalo e geniale, “Enrico e Francesco” di Pietro Folena, che affianca – tema per tema – scritti e interventi di Enrico Berlinguer e papa Francesco. Due “marziani” sbarcati a Roma, a distanza di 40 anni, per far fare un salto in avanti alle loro rispettive “chiese”: quella dei comunisti italiani e quella dei cattolici “apostolici romani”.

Già avverto il cicaleccio di chi troverà obsoleto l’argomento, oltre che ora sia un artista a parlarne, su una rivista poi come Hidalgo che dall’inizio si è arrischiata a mescolare arte e impegno politico; ma è proprio il citato sottotitolo a segnare l’attualità di una necessità che in ogni campo di attività dovrebbe essere avvertita da tutti coloro che non riescono ad essere indifferenti e non vogliono galleggiare passivamente nel brodo indigesto dello status quo, per non ammalarsi così non solo della sua congenita miopia, ma anche dell’incapacità di vedere e custodire ciò che a poche decine di centimetri ci circonda e interroga.

Abbiamo tutti bisogno di “pensieri lunghi”, ovvero vedere più lontano, vedere da fuori staccandosi dal recinto del proprio orticello o tornaconto quotidiano, avere il coraggio di ascoltare i padri e di costruire una società migliore per i figli e per tutti coloro che verranno, avere quindi una visione globale in cui tutto è in armonica relazione: l’uomo e il pianeta, l’economia e i diritti umani, i paesi ricchi e quelli poveri, l’uomo e la donna, la politica e l’etica, l’arte e il mondo, la scienza e l’umanità, l’azione sociale e l’interrogazione metafisica e religiosa, l’uguaglianza e la libertà….

Tutti temi questi attorno a cui Folena costruisce il dialogo immaginario e convergente tra i brani scelti di Berlinguer e Francesco: parole tuonanti e controcorrente che risuonano come “chiare fresche e dolci acque” per gli assetati di giustizia sociale e bellezza, per tutti quei “fragili” che leopardianamente si sentono fratelli non solo a causa di una società che è fatta su misura dei “potenti”, ma anche di fronte alla mortalità e alla fragilità che questa condizione “cosmica” apporta nella vita di ognuno, come ribadito recentemente da Roberto Gramiccia nel suo “Elogio della Fragilità” – altro raro contemporaneo esempio di “pensiero lungo”.

La lucidità del libro di Folena, che non a caso include le nuove edizioni de “I ragazzi di Berlinguer” e “L’Evaporazione” (due excursus appassionanti del travagliato cammino della sinistra dai primi anni ’70 ad oggi), è quella di non nascondere come la testimonianza e l’azione di Enrico e Francesco siano state – tra luci ed ombre – un accorato percorso di trasformazione delle loro rispettive “chiese”: quella del primo, incapace di superare vecchi schematismi e di evolversi non tradendo i suoi ideali (e poi “evaporata” del tutto nel calderone berlusconiano e postmoderno); quella del secondo ancora incapace di incarnare realmente il messaggio cristiano e ancora in fondo impermeabile (Francesco incluso) a temi e diritti avanzati a più riprese dalle componenti progressiste della società civile. Al di là di questa lucida impostazione storica, la forza del libro è tutta nella capacità di ascolto del cuore dei messaggi di Enrico e Francesco, nell’individuare una serie di temi cruciali che rischiano di essere sommersi nel vacuo chiacchiericcio mediatico o nell’indifferenza di una politica ridotta a strategia elettorale e incapace di portare avanti la berlingueriana “questione morale”; temi poi del tutto ignorati dal nostro sistema economico-finanziario, capitalista e neoliberista, interessato solo a incentivare i profitti di pochi e così indifferente persino alle stesse sorti del pianeta su cui anche i “potenti” vivono – figuriamoci come possano essere umanamente interessati ai miliardi di formichine che osservano dall’alto dal loro “nido dell’aquila” (nome con cui Hitler aveva chiamato il suo rifugio-fortezza sulla cima del monte Obersalzberg).

La forza che è alla base di questo libro (come del consonante “Elogio della fragilità”) risiede nella capacità di non piangersi addosso, di trovare dentro di noi il fuoco di un ideale comune, e di andare così oltre i limiti delle “chiese”: con il coraggio di rilanciare i temi dell’uguaglianza e della giustizia sociale (dopo il naufragio totalitario dei comunismi), e quelli dell’amore cristiano (senza identificarsi per questo con i dogmi o la struttura gerarchica dello “Stato della Chiesa”).

Una forza che anche gli uomini di cultura e gli artisti dovrebbero ritrovare, cominciando a non identificare l’arte (o la cultura) con il sistema dell’arte (o culturale) in cui, in ogni tempo, è stata rinchiusa e indirizzata. Come aveva detto Gino de Dominicis (citato recentemente da Roberto Pietrosanti nella sua risposta alle “Cinque domande Hidalgo”) “non esiste il mondo dell’arte, esiste il mondo”: questo per noi vuol dire che ogni nostro atto deve radicarsi nello sgomento originario dell’essere al mondo, nella nostra mortalità, nella capacità quindi di mettere in primo piano la dimensione esistenziale e l’interrogazione spirituale congenita all’essere umano, non separando se stessi dagli altri (o l’Artista dai “comuni mortali”); vuol dire star fuori da quei cortocircuiti formalistici-estetici o narcisistici così tipici dell’arte contemporanea, e dal vacuo corollario di venerati “addetti ai lavori” (galleristi, mercanti, critici prezzolati, collezionisti speculatori, ecc) che in realtà sono interessati unicamente all’aspetto mercantile dell’arte.

Cogliere veramente il messaggio espresso dal libro è così quello di applicarlo nel proprio ambito di attività, quale esso sia, per rinnovarlo con “pensieri lunghi” e non lasciandolo così ristagnare con trovate e stratagemmi dal “fiato corto”.

La frammentazione dei vari aspetti e saperi dell’umanità e di ogni dimensione specialistica sempre più chiusa in se stessa – un meccanismo di scatole cinesi dove ognuno vive nella sua propria scatola ignaro di ciò che lo contiene e di ciò che contiene – è una malattia mortale che inaridisce la vita di ognuno.

Arte, filosofia, religione, e la politica come senso della polis, e l’ecologia come cura e ascolto della natura e del pianeta che ci ospita, sono realtà che costantemente si intrecciano nell’essere umano, e come tali devono cercarsi e interrogarsi in ogni nostra attività. A partire dalla riunificazione primaria che è poi quella di tenere insieme la dimensione relazionale, l’apertura all’altro ( e quindi la dimensione politica e sociale dell’uomo), con la condizione assoluta che ognuno vive come essere umano, nudo di fronte al tutto, e a se stesso: necessità ineludibile se non si vuole dividere in due l’esistenza umana, e così ogni attività che – sul modello di quella artistica – proprio questa complessità ed apertura dovrebbe custodire e testimoniare. Non si può essere “cittadino” senza al contempo comprendersi come “essere vivente” all’interno di una dimensione universale e cosmica, e senza smantellare le opposte retoriche che hanno esaltato ora l’Uomo ora il Citoyen, e diviso così il cielo dalla terra.

Grazie allora a te Pietro che hai riportato con forza alla nostra attenzione parole e temi per riscoprire cosa c’è oltre la “punta del naso” e riprendere rigenerati a lottare in condivisa idealità.

Le mie sono state solo brevi “note al margine”, non una classica recensione, lascio ad ognuno il piacere di scoprire dall’interno questo libro (ed anche quello di Roberto); note scritte di getto per augurare a tutti – in maniera non pleonastica ma operativa – un “felice anno nuovo” & una nuova rivitalizzante Rivoluzione solare.

 

 

 

 

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