“Fontana di luce”, di Achille Bonito Oliva

Fonte: La Repubblica, 1 ottobre 2017

“Lucio Fontana Ambienti/Environments” è il titolo della straordinaria mostra allestita alla Pirelli Hangar Bicocca di Milano, a cura di Marina Pugliese, Barbara Ferriani e Vicente Todoli in collaborazione con la Fondazione Lucio Fontana. Straordinaria perché dedicata solo alle sue grandi installazioni nello spazio: nelle navate dell’edificio industriale riprendono vita nove ambienti e due ulteriori interventi, che furono realizzati tra il ’49 e il ’68, per istituzioni, gallerie e musei italiani e stranieri. Due di essi presero forma con la collaborazione di Nanda Vigo, che allora aveva vent’anni e oggi ha potuto assistere e presiedere al “miracolo” del loro ritorno.

Fontana (Rosario/Argentina 1899-Varese 1968) aveva affrontato con i celebri tagli il “muro del suono” della pittura, la sua bidimensionalità, aprendo un varco per superare i limiti della superficie, e indicare un oltre. Ma qui è come se lo spazio nascosto del quadro, appena intravisto attraverso i tagli, si fosse finalmente disvelato e dispiegato: reso abitabile per lo spettatore. Si può camminare, vivere, nella luce della pittura. Si può approdare al congiungimento tra arte e vita.

Ecco ricostruita l’utopia di un’arte sperimentale che nell’intreccio con l’architettura fonda una nuova dimensione, quella installativa. Chiaramente Fontana trae ispirazione dal manifesto della scultura futurista che esprime i concetti di dinamismo ed energia, per realizzare un’arte “tetradimensionale” fondata sullo sviluppo simultaneo di materia, colore e suono in movimento, come dichiarato nel Manifesto Blanco scritto nel 1946 con un gruppo di artisti argentini. E infatti utilizza il neon, l’artificio luminoso di un materiale industriale che sposta l’opera dalla poesia della forma alla prosa della produzione industriale. La prima opera esposta (di cui esiste una versione anche al Museo del Novecento) è Struttura al neon per la IX Triennale di Milano, 1951, e documenta tale intenzione basata sullo sconfinamento dei linguaggi — con la luce così fredda e moderna del neon che dialoga con il cielo blu Giotto del soffitto — per offrire una nuova esperienza allo spettatore. L’opera diventa un invito all’esplorazione di una nuova dimensione contemplativa, come risulta anche in Ambiente spaziale a luce nera (1948-1949), che è in assoluto la prima opera ambientale realizzata da Fontana. La espose in una galleria di Milano, ai Navigli: in un ambiente buio, illuminati solo dai raggi ultravioletti (la luce di Wood), fluttuano forme biomorfiche dai colori fosforescenti, come se fossero sospese nello spazio. È l’esatta realizzazione di quanto aveva detto in uno dei suoi manifesti spaziali: “Vogliamo che il quadro esca dalla sua cornice e la scultura dalla sua campana di vetro. Una espressione d’arte aerea di un minuto è come se durasse un millennio, nell’eternità. A tal fine, con le risorse della tecnica moderna, faremo apparire nel cielo: forme artificiali, arcobaleni di meraviglie, scritte luminose”.

Uscire dalla cornice non è frutto di un’intemperanza, il vitalismo del gaucho Fontana invece è temperato dalla matrice culturale italiana che contraddistingue tutta la sua opera, sostanzialmente fondata sulla proporzione e l’armonia. Anche le due Utopie del 1964 esprimono un invito a una serena deambulazione esplorativa per lo spettatore accolto da una tappezzeria rossa e una moquette morbida che invita a nuove e personali esperienze, così come nel nero Ambiente spaziale (1966), qui ricostruito dopo la mostra personale al Walker Art Center di Minneapolis che costringe infatti lo spettatore a chinarsi nell’ingresso per accedere allo spazio centrale dominato da un buio pressoché notturno. L’artista ha sempre vissuto il clima culturale dei propri tempi, aperto anche al gusto dell’epoca, come si desume dai tre Ambienti spaziali del 1967, che denunciano i richiami a un’estetica pop. Struggenti l’Ambiente spaziale costruito per la mostra “Lo spazio dell’immagine” a Foligno del 1967 e l’Ambiente spaziale di Documenta IV, a Kassel (1968), che confermano la grandezza di un artista laico e progressista che ha saputo dare attraverso l’arte ospitalità alla vita.

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