“Il corpo di Marina”, di Nicola Davide Angerame

Fonte: La Repubblica, 17 settembre 2017

“È una incredibile opera d’arte vivente ed è senza limiti come essere umano”. Così Lady Gaga ha definito Marina Abramovic, che ha conosciuto sottoponendosi al suo Method. Oggi, la signora indiscussa della performance, dopo quarantacinque anni di carriera iniziata e maturata in Italia, a settantuno anni progetta eventi di massa e crea un proprio avatar, destinato a sopravviverle.
Ha da poco girato The Space in Between, un lungometraggio sulla spiritualità in Brasile, e nel settembre 2018 è attesa a Firenze per l’ampia retrospettiva di Palazzo Strozzi. Intanto, a Venezia, (dove ha vinto il Leone d’Oro nel 1997), ha presentato in una mostra collaterale, negli spazi di Zuecca Project, il video The Kitchen dedicato a Santa Teresa d’Avila ed eseguito nella cucina dello storico convento di La Laboral di Gijón, in Spagna. Il 28 e il 29 settembre scenderà nelle Langhe per presentarlo anche nella chiesa di San Domenico di Alba, ospite della collezione d’arte Ceretto.
Lei è molto legata all’Italia. La sua carriera nasce qui, negli anni Settanta: erano anni difficili per le artiste?
«Non eravamo molte, io ero l’unica a farmi spazio. Ero arrabbiata con loro perché non assumevano la responsabilità del proprio ruolo culturale. La donna restava dietro l’uomo e così facevano tante artiste giovani. Ma io venivo da Belgrado, e da un’esperienza diversa, da una cultura più paritaria come quella comunista. Mia madre era maggiore dell’esercito, un’eroina nazionale. Per me era scontato avere il mio spazio. Però non sono mai diventata femminista, penso che l’arte non abbia genere, ma solo qualità».
Ma ora si occupa di spiritualità. Come nasce questo percorso che l’ha portata a lavorare sulle estasi di Santa Teresa d’Avila?
«I miei genitori erano assolutamente comunisti mentre mia nonna era molto religiosa. In famiglia abbiamo anche un patriarca della chiesa ortodossa, poi fatto santo. Io sono buddista tibetana, quindi diciamo che sono un fritto misto. Nel mio lavoro confluisce tutto ciò che imparo dai diversi aspetti di questa eredità culturale».
Crede in Dio?
«Non a un dio con la barba, però credo in un’energia non razionale e divina. Essa raggiunge il tuo corpo e per questo occorre prepararlo perché l’accolga».
Le sue performance si fondano sulla resistenza del corpo, come lo prepara?
«Non mangio per alcuni giorni oppure vado lontano, magari in India, per capire i limiti del mio corpo. L’Occidente è limitante perché fonda il lavoro sulla tecnologia e sull’uso dell’intelletto. La cultura orientale invece esplora il corpo in modo radicale. Ho imparato delle tecniche che pratico nelle mie performance».
Per esempio?
«Al MoMA di New York, in The Artist is Present, resto seduta immobile per tre mesi. Se provi a farlo, ti renderai conto di quanto sia difficile. Non ci sarei riuscita senza la determinazione che nasce dalla mia formazione comunista e la tecnica spirituale orientale».
Come trova l’ispirazione?
«Non cerco l’ispirazione, faccio la mia vita, non lavoro in studio, credo che lo studio sia il peggior posto possibile dove lavorare. Le idee sono fuori dagli studi, che invece sono pieni di computer.
Quindi viaggio, studio, visito culture differenti e distanti per imparare dai nativi cose che stanno per essere dimenticate.
«Facendo queste ricerche le idee arrivano dalla vita all’improvviso».
Che tipo d’immagini sono?
«Sono visioni e devo selezionarle. Non mi interessano quelle che mi piacciono, ma solo quelle delle quali ho paura. Quando ciò accade mi dico: “devo farlo”.
Col tempo questa idea diventa un’ossessione.
Sono idee difficili, faticose. Qualche volta possono occorrermi anche quattro anni per realizzarle, perché devo prepararmi come se fossi dentro un programma spaziale della Nasa. Devo pensare a come nutrirmi, all’energia».
Nei suoi lavori parla spesso anche della morte. Perché?
«Tutti noi ogni giorno moriamo un po’, è importante diventare amici della morte. Credo che per avere una grande vita occorra avere una grande morte».
Mi sta dicendo che si sta preparando per la morte?
«Certo. Nella pièce di Bob Wilson Vita e morte di Marina Abramovic ho inscenato il mio funerale, so perfettamente come andrà».
La morte come ultima performance.
«Ma lo è, per questo è così importante essere molto coscienti. Pensi alla vita dei santi, gente che muore in posizione seduta con la vita che semplicemente se ne va, è un modo meraviglioso per morire perché puoi avvertire il passaggio dalla vita alla morte. Non è come morire in un incidente, malato, arrabbiato o spaventato. I Sufi dicono: la vita è un sogno e la morte è un risveglio, è molto poetico».
Lei vive negli Stati Uniti, in una cultura che in fondo è molto materialista: non si trova a disagio?
«Niente affatto. È in questa cultura che realizzo il mio vero ruolo d’artista. Dovrei vivere in mezzo alla natura? E perché, se la natura è già perfetta così com’è?».
A che tipo di arte è interessata?
«Non a quella che riflette le cose che ci sono, ma a un’arte che possa cambiare la coscienza degli essere umani. Se cambi te stesso puoi cambiare migliaia di persone. Adesso le mie performance sono su scala sempre più grande a livello di pubblico, io le chiamo eventi di comunità, in cui offro strumenti utili a produrre una coscienza collettiva. Perché penso che l’arte e la cultura non siano un lusso ma una necessità».
La performance è diventata così conosciuta che se ne occupano anche i comici in tv. Ha visto le imitazioni di Virginia Raffaele? La fa arrabbiare?
«Mi sembra che insista un po’ troppo. Prenda in giro qualcun altro, si rinnovi. Dico solo che la mia ricerca è talmente seria. So divertirmi, e molto, ma con ciò che è buffo davvero».
Torniamo a cose serie, allora. Chi ammira di più oggi?
«Tehching Hsieh, è il maestro più grande che io abbia incontrato, nel modo più assoluto, ho molto rispetto per lui. In vita sua ha eseguito solo cinque performance, durate un anno ciascuna. A conclusione delle sue performance, gli chiesi: e adesso cosa farai? Adesso vivo, mi ha risposto. Perché la performance è una tecnica per cambiare l’essere umano e lui è davvero cambiato».

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