LAURA IAMURRI dialoga con LICIA GALIZIA in occasione del V appuntamento di SIC a Roma, presso lo studio di Daniela Perego

di Valentina Gramiccia

Licia Galizia: Grazie a tutti per essere venuti, grazie a Lucilla per il suo invito e grazie a Daniela Perego per la sua ospitalità. Quando sono stata invitata a realizzare il lavoro per il Parco di Sculture di Bassano in Teverina ho trovato Casetta Lola attorniata dalle imponenti sculture in marmo di Lucilla Catania, insieme alle opere già installate nell’edizione del 2018. Gli spazi, quindi, erano ancora piuttosto liberi, l’orizzonte sconfinato e mi sono interrogata sul che fare. Ho individuato, anzitutto, la mia postazione, prospicIente Casetta Lola e quindi ho pensato subito ad un lavoro in armonia con la natura. Mi sono guardata intorno e ho visto un tronco reciso e a fianco la sua radice. L’ho scelto per farne l’oggetto della mia opera. Un tronco senza più vita al quale volevo regalarne una nuova. La mia idea era quella di intervenire sul tronco al fine di proteggerlo (l’opera, infatti, si intitolerà Proteggimi).

PROTEGGIMI è il grido disperato della natura che non possiamo più ignorare.

Ho pensato a un progetto realizzativo che non fosse finito ma piuttosto dinamico, che cambiasse col tempo e con il susseguirsi delle stagioni, che mutasse aspetto grazie alle inflorescenze delle piante che gli crescono attorno.

L’installazione e’ stata realizzata con fasce di rame che si avvolgono intorno ai due tronchi che come corpi pesanti giacciono a terra mostrando la loro forza ma anche la loro fragilità.

Le fasce avvolgono come bende il “corpo” dei tronchi realizzando una corazza protettiva, esse si flettono e si arrotolano su se stesse per concludersi a terra creando piccoli invasi per delle piantine e dell’acqua. Quest’ultima si depositerà naturalmente nei piccoli contenitori nei giorni di pioggia ma dovrà, come in un antico rituale, essere regolarmente versata da chi, amorevolmente, se ne prenderà cura nei giorni aridi e difficili.

La cura e la protezione della natura dovrebbe diventare un fattore primario per l’essere umano prima che sia troppo tardi. La prima idea, quindi, è stata quella di “fasciare” il tronco e la sua radice come nel mondo antico si fasciavano le mummie, oppure i bambini appena nati. La fascia è un ausilio protettivo, coprente. Ho pensato al rame come materiale perché quest’ultimo è incline al processo naturale di ossidazione. Ho avvolto sia la radice che il tronco con delle fasce di diversa larghezza e di diversa lunghezza. La maggior parte delle estremità delle lastre di rame si arrotolano su se stesse e diventano come mani che accolgono e contengono ognuno una piccola pianta grassa reperita nel giardino. L’elemento vitale dell’acqua, sia piovana che artificiale, nutre le piantine destinate a crescere sempre di più. Successivamente, ho osservato il processo di ossidazione e ho visto come l’azoto connoti la superficie di quel caratteristico verde (il verde rame appunto). Un verde/azzurro acceso, bellissimo. In seguito, ho miscelato delle polveri e attraverso l’utilizzo di uno spruzzino (un lavoro di due giorni) sono intervenuta su tutta la superficie delle lastre del tronco. Interessante il cambiamento del colore delle lastre quando piove: ecco in questo caso momentaneamente il verde sparisce e di nuovo lascia il posto al rame, che si confonde con il marrone del tronco. Poi ancora, dopo la pioggia il sole che inverte di nuovo il processo e dal rame si passa al verde. Adesso le piante, cresciute nel corso del tempo, stanno diventando parte integrante dell’opera.

Laura Iamurri: Ci tenevo molto che iniziassimo col parlare proprio di questo lavoro, pensato appositamente per lo spazio. Infatti, il tronco era lì, vicino Casetta Lola, non è stato trasportato da un altro luogo. È un’opera di grande impatto, naturale ma dove si esplicitano allo stesso tempo tutte le caratteristiche proprie del lavoro di Licia. Questo lasciare al tempo fare il suo lavoro. Si vede con le piante che crescono ma si vede anche con l’ossidazione del rame che, tuttavia, la pioggia riporta a una condizione originaria. Insomma, quello che emerge è l’intenzione di lasciare le opere vivere di vita propria. Sbaglio?

L. G.: Assolutamente, ho sempre lasciato agli altri (al fruitore, all’ambiente, al progetto stesso) infinite possibilità di mutamento, sempre restando fedele alla mia idea di lavoro, la cui intenzione è sempre dinamica, mai statica.

L.I.: Nel lavoro di Sculture in campo c’è anche questo dialogo fra permanenza/impermanenza (come nel processo di ossidazione di cui si parlava). L’opera che hai portato qui oggi conferma la riconoscibilità di alcuni tuoi tratti: il gusto per questi materiali morbidi, malleabili, modellabili. Immagino che anche questa scultura possa essere configurata in diversi modi, a seconda dei contesti? Ci vuoi raccontare questo aspetto?

L. G.: Questa scultura si chiama Acque e nello specifico è dedicata all’Acqua dolce. Essa fa parte del ciclo iniziato nel 2018 con una mostra personale che ho realizzato nella galleria Anna Marra di Roma che si intitolava Flussi. Il tema era l’acqua intesa come acqua che nutre e che fa vivere ma anche come acqua che uccide e che può procurare la morte, che può distruggere l’ambiente attraverso le alluvioni, ad esempio o perché torbida e inquinata. In questa installazione potete osservate la sezione bianca dell’opera: ecco, quella rappresenta il 2,5% di acqua potabile dolce del nostro pianeta, tutto il resto è in blu cobalto e rappresenta la percentuale non potabile. Di qui il titolo dell’opera. Tornando alla sua configurazione, Acque effettivamente si può allargare o rimpicciolire. Come la vedete ora è il risultato della deformazione naturale di questo materiale che si modella, che è fluido (nasce proprio per galleggiare sull’acqua).

L.I.: Tu scegli sempre materiali che veicolano l’idea di leggerezza e variabilità nella forma. C’è anche un’idea intensamente politica in questo lavoro, mi sembra. La riflessione sull’acqua come risorsa porta con sé una serie di ragionamenti che possono estendersi sull’attenzione al consumo. L’acqua è un bene prezioso e va preservato, non va sprecato. Mi colpisce molto anche questa capacità di tenere insieme la gravità di un messaggio politico (nel senso nobile del termine) e la leggerezza di questa forma.

Tornando a Proteggimi, il tuo lavoro entra in contatto e interagisce anche con i suoni. Ad esempio, quelli emessi dalla fauna del Parco, o dalle stagioni (il vento, la pioggia, ecc.). Questa osservazione mi porta a introdurre la tua collaborazione, che dura da 18 anni, con il Centro Ricerche Musicali di Roma. Vorrei che ci raccontassi cosa di nuovo questa collaborazione ha portato nel tuo lavoro, come lo ha modificato, se lo ha fatto.

L.G.: Io ho sempre scelto materiali leggeri, come il rame, l’ottone e l’acciaio in lastre sottili. Il volume, il peso della tridimensionalità non mi appartiene.

La mia prima esperienza con la musica, invece, risale al 2001-2004 quando collaborai con Paolo Marchettini, un compositore clarinettista. Era un tipo di lavoro sinestetico tradizionale, con lo spostamento di alcuni elementi dell’opera e la musica suonata dal vivo. Successivamente, sono entrata in contatto con il compositore Michelangelo Lupone e la musica elettronica. Allora la musica è entrata dentro l’opera, è l’opera che suonava, quindi l’interazione era e sarà totale. Pensiamo sempre ad un lavoro non solo interattivo ma adattivo, cioè l’opera attraverso una piccola intelligenza artificiale si adatta all’ambiente e agli stimoli esterni, accumula memoria e la risposta non è mai predicibile, è sempre diversa, è sempre nuova. Insomma, pensiamo ad un’opera viva.

L.I.: Si, è una scultura destituita da ogni pesantezza e aperta ad arricchirsi sempre di nuove suggestioni. Nei lavori di diversi artisti il suono invita all’interazione, al gesto e al passo del pubblico. Nel tuo caso invece, come dicevi, si tratta di un processo non solo interattivo ma adattivo che ha a che fare con una composizione musicale che tu vuoi far dialogare.

Michelangelo Lupone, vuoi parlarcene?

Michelangelo Lupone (autore musicale di numerose opere di Licia Galizia). Tutti gli aspetti concettuali e realizzativi sono discussi anticipatamente tra noi. Cerchiamo di conquistare il fruitore attraverso la suggestione, il richiamo d’attenzione, la partecipazione attiva. Un presupposto determinante della cooperazione artistica tra me e Licia consiste nella concezione di opera cangiante nel tempo, in grado di mutare o trasformare uno o più elementi di cui è costituita, in funzione dello scorrere del tempo e dell’azione interattiva del pubblico; da ciò il concetto di adattività che contraddistingue le nostre opere. Il nostro obiettivo è di ottenere che gli elementi formali, percepiti nello spazio, e quelli musicali, percepiti nel tempo, dialoghino e si integrino per costruire un assetto sempre rinnovato della fruizione. Da musicista, sono abituato a trattare lo scorrere del tempo e le trasformazioni del suono che determinano la percezione della forma musicale. La coesione degli aspetti plastici a quelli musicali rappresenta il luogo privilegiato della nostra ricerca e dei continui confronti realizzativi, sia espressivi che pratici. Sono questi aspetti ad incidere profondamente sulla scelta dei materiali plastici e sonori, sulle dimensioni di ogni elemento scultoreo, sulle caratteristiche interattive e di trasformazione adattiva dell’opera. Quello che noi attivamente facciamo è cercare l’integrazione tra la materia scultorea e il suono: facciamo vibrare ogni parte dell’opera affinché dalla materia possano generarsi i suoni che si trasformano e si combinano musicalmente. Ovviamente ciò richiede materiali scultorei scelti appositamente, dimensioni e forme sperimentati prima e poi applicati coerentemente alle tecnologie e ai criteri di controllo vibrazionale, questi ultimi li otteniamo applicando tecnologie analogiche e digitali. Tutta la materia scultorea diventa un complesso produttore di suono, un insieme di elementi sensibili al tatto, allo sfioramento, e in alcune opere anche allo spostamento delle parti mobili. Le azione del pubblico, fatte in punti diversi e con diversa velocità, intensità, ricorsività, determinano le trasformazioni musicali, queste sono sempre diverse in base allo scorre del tempo. Alla base della musica e delle sue trasformazioni c’e’ una partitura che serve a garantire, oltre alla coerenza stilistica ed espressiva, la corretta interpretazione dei gesti del pubblico e l’adeguatezza delle risposte vibrazionali della materia. Si tratta di una particolare partitura scritta non con la notazione tradizionale ma con flussi logici e funzioni racchiusi in algoritmi che un computer, integrato all’opera, esegue, rilevando istante dopo istante lo stato di ogni parte della scultura e sintetizzando i suoni e l’intensità delle vibrazioni. Ciò ci permette di legare in modo stringente la materia scultorea alla musica all’azione e di suggerire al fruitore la correlazione tra il suo gesto e ciò che vede e ascolta.

L. I.: Quindi non si tratta di una registrazione ma è l’opera stessa che produce il suono. È allo stesso tempo una scultura e un’opera musicale. E che reagisce a sollecitazioni diverse che possono essere date da un flusso d’aria, dalla luce ecc. Licia, come ti sei trovata a lavorare rispetto ai vincoli imposti dai meccanismi realizzativi di opere così configurate?

L.G.: La prima opera è stata significativa. Con Michelangelo ci siamo conosciuti fine 2004, per tutto il 2005 abbiamo studiato come realizzare un’opera a 4 mani che rispettasse il mio e il suo linguaggio. Io ho stabilito dei limiti, non volevo una scultura enorme che suonasse, volevo mantenere i miei standard installativi. Quindi, costruii una pedana modulare e una parete e poi realizzai dei tagli sulle superfici dove inserire degli elementi mobili, così come facevo di solito sui muri. Quindi, ho dovuto costruire una struttura che avesse con corpo e dei volumi con una precisa profondità sufficiente a contenere le tecnologie che ci avrebbe permesso di realizzare l’opera nel suo insieme. Il mio sforzo, quindi, è stato di lavorare diversamente dalle mie abitudini, più sull’oggetto-struttura che sull’operazione installativa. Ho scelto il legno come materiale dominante per la pedana e la parete e l’alluminio, leggero e flessibile per le lastre fisse e mobili. In seguito ho sperimentato anche altri materiali come il metallo che ha un ottimo potenziale di vibrazione. La musica che esce da un corpo d’acciaio o di ferro è diversa da quella che esce da un corpo di legno o di altri materiali…

In un’altra occasione, al MACRO, ho sperimentato la vetroresina per realizzare lastre enormi. Questo materiale ha una straordinaria conduzione. È stata un’esperienza nuova per me.

E poi il colore… Qui è presente Francesca, una mia storica collezionista, che ci ha commissionato un’opera ambiziosa e poetica per sé e i suoi figli che vivono lontano. Tre opere in acciaio inox verniciate: uno rosso, uno azzurro e uno arancione. Michelangelo si è occupato degli aspetti musicali, ovviamente rendendo evidente questa differenza cromatica fra i 3 elementi. Queste tre opere sono messe in rete. Quando la madre tocca l’opera suona anche quella dei figli e viceversa. Ogni suono ha una sua riconoscibilità.

L.I.: Mi colpiscono molto, in questo caso specifico, gli aspetti evidentemente emotivi dell’opera, molto intensi. La carezza della madre sull’opera evoca il gesto della carezza sul figlio. E questo smonta anche la retorica dell’opera che non si tocca. È commovente. La carezza diventa il veicolo di un suono che è poi il veicolo di un affetto.

Francesca: Io cercavo un modo diverso dal telefono e da internet per tenermi in contatto con i miei figli lontani. Il bello è che Michelangelo aveva composto per ognuno di noi una partitura musicale diversa. Il riconoscimento quindi nella comunicazione era immediato. Una cosa bellissima!

M. L.: è stato un lavoro lungo e meticoloso anche e soprattutto per la tutela dei dati in rete. Per mantenere un grado di riservatezza e di protezione delle informazioni sonore scambiate dalle tre opere. Con il Centro Ricerche Musicali ho realizzato un protocollo di scambio dei dati che, oltre alla sicurezza, garantisce la massima velocità di trasferimento delle informazioni, il risultato è una interazione tra le opere quasi in “tempo reale”. Questo aspetto è determinante nel dialogo tra le opere perché permette ad ogni fruitore di comprendere il senso e la natura del gesto fatto da ognuno. Abbiamo fatto numerosi test di dialogo musicale e gestuale, controllando parallelamente al telefono l’esattezza e l’immediatezza delle risposte. È stato un lavoro collettivo denso di emozione e di suggestioni per il futuro!

L.I.: Rispetto a una richiesta così intensa, tu Licia come la pensi la forma rispetto a questi tipi di progettazione?

L.G.: Questo tipo di lavoro scaturisce da una mostra che io ho realizzato nel 2010 da Mara Coccia, intitolata Onde, l’anno dopo l’esperienza traumatica del terremoto a L’Aquila. Avevo presentato degli elementi in acciaio a terra che si sollevavano grazie al moto indotto dalla vibrazione. In questa mostra ho presentato anche altri lavori a parete sempre in acciaio. In quel frangente Francesca ha visto per la prima volta quel tipo di opera e da lì l’idea. Ho realizzato dei bozzetti che poi ho sottoposto alla loro attenzione. È stato un lavoro difficilissimo da realizzare affinché fosse “musicale” perché lo stesso acciaio produce un suo suono durante la vibrazione, producendo attriti e ronzii che dovevano essere isolati.

Un aspetto importante da sottolineare rispetto alle nostre intenzioni è il seguente: la tecnologia (ultimamente sempre più minuta e raffinata) che permette la realizzazione di opere del genere deve rimane nascosta al fruitore perché per noi la tecnologia non è un fine ma un mezzo, non è quello il tratto espressivo che c caratterizza.

L.I.: Un ulteriore elemento di complessità nella progettazione, quindi. Che ricorda la cura e l’attenzione nel nascondere la tecnologia dell’esperienza di Studio Azzurro.

Mi colpisce, inoltre, la vostra capacità di lavorare insieme da diversi anni, partendo da posizioni che comunque mantengono una loro specifica individualità. E che questa collaborazione duri inoltre nel tempo.

L.G.: Il nostro è un team ben strutturato, composto da me Michelangelo e soprattutto dal CRM (Centro Ricerche Musicali). Dietro ogni lavoro ci sono musicisti, compositori, fisici, programmatori. Tutto il mio lavoro artistico, nell’arco di un trentennio, è stato segnato da varie collaborazione con altre figure professionali. Il mio non è un lavoro esclusivamente solipsistico. Mi è sempre piaciuto lavorare con chi usa la parola, la musica o altri mezzi espressivi intesi in senso lato.

L.I.: Per te l’incontro con il CRM ha coinciso con l’inizio di un rapporto diverso con la tecnologia, rispetto al tuo lavoro intendo?

L.G.: Il mio incontro con la musica risale a molti anni fa. Fin dagli esordi della mia personale da Mara Coccia, e alle mostre al Palazzo delle Esposizioni, diversi critici e fruitori consideravano i miei lavori come spartiti al muro, come elementi capaci di essere “suonati”. Allora iniziai a pensare i miei lavori come esperienze multidisciplinari. Non ho mai pensato di realizzare o comporre musica da sola ma ho sempre cercato di tessere relazioni con professionisti che fossero in grado di entrare in sinergia con il mio lavoro. Credo nel lavoro di gruppo, come dicevo prima, purché il dialogo fra le professioni e le competenze rimanga paritetico. Prediligo i lavori integrati. E mi affascina molto lavorare con chi usa la parola così come il suono, quindi la musica. Spero di aver dimostrato nel corso degli anni una certa coerenza nel mio lavoro e nello spirito di ricerca, valorizzando gli aspetti etici, sociali. Nel 2012, ad esempio, dopo un primo incontro con un gruppo di non vedenti al Museo Bilotti, io e Michelangelo abbiamo iniziato un ciclo di lavori pensati anche per una fruizione allargata a tutti e in special modo ai non vedenti e agli ipovedenti. Bartolomeo Pietromarchi, che ai tempi era il Direttore del Macro, ci mise a disposizione uno spazio adibito proprio a laboratorio per non vedenti. Una stanza di 65 mq, dipinta interamente di nero dove si poteva sperimentare l’arte in maniera diversa, privilegiando il tatto alla vista. Realizzammo Oasi, un ambiente plurisensoriale. In quella occasione, come in tutte le nostre opere, utilizzammo la tecnologia per rendere le opere sensibili al tatto e molto performanti nella risposta musicale durante l’interazione con i fruitori. Lo spazio era accogliente e fungeva quasi da ventre materno. Tutti gli elementi (pareti, pedane, lastre ecc.) erano tutti sensorizzati e quindi resi sensibili al gesto e alla presenza del fruitore che, toccando e accarezzando le superfici metteva in vibrazione la materia. Quindi si alla tecnologia se usata per potenziare l’opera al fine di renderla sensibile al dialogo con l’uomo. Diventa così un’operazione di democratizzazione della fruizione dell’opera, rivolta a tutti anche ai non abili.

La musica poi è l’elemento poetico e dialogante per eccellenza e mi sento di dire che la mia opera senza la musica , sarebbe stata monca.

.L.I.: Con questo racconto torniamo alla vocazione intrinsecamente politica del tuo lavoro. In questo caso, la sensibilità della committenza ha reso possibile una collaborazione in questo senso.

L.G.: Ci tengo a mostrarvi un grande lavoro sull’acqua che presentai da Anna Marra. Volutamente di grandi dimensioni, collocato all’ingresso della Galleria, quasi ad ostruire il passaggio. Il titolo è Mare oscuro, un’opera di 4 mt, composta da circa 1600 lastre, di materiale plastico, plexiglass leggero. Le lastre sul fondo erano particolarmente affilate e taglienti, ad alludere all’aggressività di questo mare rappresentato, nel caso di specie il Mediterraneo: Per molti una salvezza, per i migranti invece per lo più luogo di morte. Un’opera fortemente drammatica, qualità accentuata anche dalla musica composta da Michelangelo, assolutamente coerente con la tematica affrontata. Un suono profondo, cupo che ti prendeva il cuore. Dal profondo. Il fruitore, camminando e toccando, si “bagnava” di quel mare. Un’operazione di trasversale sensibilizzazione al dramma, al dolore.

Il principio dal quale parto nella realizzazione di un’opera, se pur aniconica, è il riferimento primigenio alla natura e alla metamorfosi, alla trasformazione.

Lucilla Catania: Quando ti approcci alla realizzazione di una tua mostra personale, quindi, ti interfacci fin da subito con Michelangelo perché nasce un po’ insieme l’opera? Nello specifico, lui si deve un po’ adeguare al senso, alle intenzioni, allo spazio della galleria, all’ingombro dell’opera e all’idea politica che ci sta dietro?

L.G.: Nel caso di Mare oscuro è stato così.

M. L.: Confermo e, nel caso di Mare oscuro, ho condiviso immediatamente lo scopo e le finalità. Successivamente, come sempre, c’è stato un processo di scambio di informazioni e di suggerimenti. Ad esempio, nella disposizione delle lastre, nella collocazione delle tecnologie, nella disposizione dei collegamenti tra le diverse parti dell’opera, nella posizione dei sensori e dei piccoli attuatori che mettono in vibrazione le lastre: è stato un lavoro capillare, accurato, non privo di imprevisti risolti però con determinazione e inventiva.

.Christian Stanescu: Ho seguito i vostri ultimi interventi al Bilotti e alla Nuova Pesa e ho notato anche un’evoluzione algoritmica. È così?

M. L.: Si. E’ stato un percorso lungo che ci ha portato ad anticipare quello che oggi chiamiamo intelligenza artificiale. Il lavoro progettuale e realizzativo si è sviluppato anche grazie all’evoluzione dei sistemi tecnologici utilizzati. Mi riferisco sia al Hardware che al Software, alla potenza e alla velocità di calcolo ma anche alla riduzione della dimensione delle tecnologie; quest’ultimo aspetto è determinante perché ha un impatto sostanziale sulle specifiche scultoree, sia per le dimensioni che per le forme. Inoltre ci è venuto incontro anche lo sviluppo di nuovi materiali che hanno aumentato la capacità di vibrazione e di conseguenza della trasmissione del suono.

L.G.: I nostri primi lavori erano semplicemente sensibili al tatto. Adesso sono in grado di rispondere allo stimolo della voce, dei suoni ambientali e anche degli strumenti musicali!

Lucilla Catania: Sono curiosa, volevo chiedere a Michelangelo che formazione ha…

M. L.: Ho una formazione classica di musicista, con studi strumentali e di composizione; ho insegnato composizione in Conservatorio e adesso dirigo lo Studio di Musica Elettronica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Il mio lavoro di ricerca lo svolgo presso il Centro Ricerche Musicali di Roma di cui sono Direttore Artistico.

L.I.: Tu invece Licia hai una carriera fittissima, molteplici mostre, sei un’artista notissima. Il fatto di essere una donna ha mai inciso su alcuni aspetti piuttosto che in altri? Mi riferisco in particolare agli aspetti del riconoscimento. Pensi di aver ricevuto meno di quello che avresti meritato?

L.G.: Penso di si… Nella mia vita ho avuto la fortuna di incontrare molto presto, all’età di 23 anni, due persone importanti: Cecilia Casorati che mi invitò a partecipare ad una mostra collettiva di giovani artisti a Trastevere, nella Galleria Eralov che oggi non c’è più e Mara Coccia che nel 92 mi fece la prima personale nella sua galleria a Roma con una preziosa presentazione di Fabio Mauri. Ho iniziato, quindi, col piede giusto! L’attenzione nei confronti del mio lavoro è stata alta fin da subito, a partire dalla Quadriennale. C’erano anche diversi critici interessati a me. Ma agli esordi sono stata penalizzata dalla mia inesperienza e dalla mia timidezza, dalla disabitudine a lavorare anche alla cura delle pubbliche relazioni perché ero fuori dal sistema istituzionalizzato. Per queste ragioni mi affidai totalmente a Mara Coccia.

Le mie installazioni erano piuttosto monumentali come, ad esempio, i primi lavori con i grandi tagli al muro, praticati col trapano, che somigliavano poco alla mia corporatura minuta e apparentemente fragile. Lo stesso Roberto Lambarelli, che conobbi quando lavoravo come assistente di Pizzi Cannella (avevo vent’anni ma ne dimostravo molti meno), mi disse: «Ho visto i lavori di una certa Licia Galizia in una Galleria di Trastevere, ma non sei tu, vero?» (alludendo a una loro presunta connotazione maschile). Io sorrisi.

Poi mi ritirai momentaneamente dalle “scene”, mi sposai, feci il primo figlio ma non ho mai interrotto la ricerca e il filo del mio lavoro! Penso, tuttavia, che se fossi stata uomo il mio percorso sarebbe stato diverso. C’è ancora paura ad investire sul lavoro di un artista donna, nel timore che prima o poi la carriera si interrompa, motivata da scelte personali o familiari…

La mia fortuna è stata forse di aver avuto dei mecenati che hanno creduto in me, prima fra tutti Mara Coccia, Francesca Ferri, Vittoria Zileri e Francesco Moschini, grazie al quale sono entrata in contatto con lo studio di architettura, La Compagnia del Progetto, di Carlo Maria Sadich con cui ho collaborato tanti anni. Ma altrettanto significative per la mia vita di artista sono state le figure come la musicologa, Valentina Lo Surdo, il musicista Paolo Marchettini e naturalmente Michelangelo Lupone e il Centro Ricerche Musicali che hanno segnato una vera svolta per il mio lavoro.

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