FACCIONI, di Vittorio Bonanni

Questi giorni se si entra nei locali del Centro Luigi Di Sarro in via Paolo Emilio a Roma, luogo dedicato a questo medico ed artista barbaramente ucciso dallo Stato nel lontano 24 febbraio 1979, si viene immediatamente colpiti da una serie di “volti” di donna che ci pongono immediatamente una serie di interrogativi. Perché Eva Macali, è questo il nome dell’artista, ha realizzato questa mostra? E qual è il significato di questi sguardi? Perché “Faccioni”, è questo il titolo della kermesse visibile fino al 9 luglio, pur apparendo nuova e dirompente come primo impatto, si inserisce nel pieno della tradizione dei “decollages” di Mimmo Rotella e Raymond Hains che spiega dunque le ragioni dell’iniziativa. Insomma “nella tradizione ma anche fuori della tradizione” come ha scritto Roberto Gramiccia, medico, scrittore e critico d’arte oltre che curatore della mostra, nell’Album catalogo dedicato all’evento e dove compaiono testi di altri esperti, quali Katie Hornstein, Lella Mascio, Lucio Spaziante e Jonathan Mullins. Un inserirsi insomma, sia pure con un approccio nuovo, in un contesto che ha giocato e appunto gioca tuttora un ruolo importante nell’ambito dell’arte contemporanea. E poi perché, ed è questa la risposta alla seconda domanda, una volta tanto, è la pubblicità a guardare noi, e non viceversa, come di solito accade. Questa autrice satirica e brillante, oltre che esperta di comunicazione, ha infatti raccolto questo materiale pubblicitario diciamo così di risulta, come appunto facevano Rotella e Hains. “Ha la fortuna – sottolinea il curatore – di avere degli amici che sono per lei come pescatori di perle. Ogni due settimane sostituiscono le affissioni pubblicitarie che invecchiano rapidissimamente con nuove affissioni. In questo turnover continuo, ritmico come la risacca, nello studio di Eva arrivano in regalo, come per miracolo, le immagini di risulta di questo processo”. Immagini, che nel campo pubblicitario sono quasi sempre volti di donna, che l’artista utilizza ribaltando insomma la logica classica appunto della pubblicità. Questi volti infatti ci guardano e non siamo noi ad osservarli come ben si evince da quella sorta di luce che fuoriesce dagli occhi delle donne ritratte. Per Spaziante, ricercatore presso l’Università di Bologna ed esperto di semiotica, “i volti delle pubblicità sono pensati per essere oggetto di sguardi. Ma qui avviene un ribaltamento. I faccioni di Eva sono volti vedenti e il loro sguardo è materializzato. Sguardi come vettori, indici che dipartono dagli occhi verso il mondo mentre anche il mondo li colpisce”. Katie Hornstein, docente di arte moderna europea presso il Dartmouth College sottolinea come tra i faccioni di Eva non ci siano uomini. “L’attenzione è rivolta soltanto e criticamente alle donne che abitano il paesaggio della nostra cultura di massa”. Abbiamo detto che lo spunto del lavoro di Macali è appunto la pubblicità. Una pubblicità spesso banale e priva di contenuti. Per questo Lella Mascio, ricercatrice in Sociologia presso l’Università di Bologna ed esperta di comunicazione, trova nel lavoro dell’artista un modo per “riempire questi vuoti di senso”. Una modaIità insomma per “inserire lo sguardo entro quei coni di luce, per orientarla e osservare nuovi punti di vista. O per entrare da quelle fessure, per riguardare quei volti e immaginare altre narrazioni, altre storie, quelle che la pubblicità non aveva raccontato”. Anche Gramiccia sottolinea la naturalezza della scelta al femminile: “Prima di tutto perché è la bellezza e l’avvenenza femminile, più di ogni altra cosa, ad essere fatta oggetto dalla pubblicità che conosce da decenni la sua produttività, la sua efficacia nel farsi tramite del messaggio commerciale. E, in secondo luogo, perché l’operazione dell’artista vuole fortemente radicarsi nel solco di un femminismo che non si limita a semplici e tardive declamazioni”. Eva Macali ci tiene a precisare che cosa l’ha spinta a realizzare un lavoro così particolare sia pure, come abbiamo visto, all’interno di una determinata tradizione. “La trasformazione di queste facce è un’operazione spirituale – precisa l’artista – sono ispirata dalla teoria femminista in generale e dalla critica cinematografica in particolare, in special modo quella di Laura Mulvey quando parla della politica del potere sessuale dello sguardo. L’analisi che fa Luce Irigaray del cosiddetto “divino femminile” è cruciale per le investigazioni del mio lavoro nei codici dell’immagine femminile oggettivata. Restituisco lo sguardo a queste donne e quello che vedono è il mondo intero che abbraccia lo spettatore. In questo modo ribalto la relazione gerarchica tra chi guarda e chi è guardato”. Proprio questo è il fine di Eva Macali che sembra essere ben riuscito. “Raramente ci si chiede a chi appartenga il volto femminile che sembra riprodursi in diverse e infinite forme” scrive Jonathan Mullins, docente di italianistica negli Usa a Dartmouth e Ohio University, nell’Album. E invece in Faccioni questa domanda diventa un imperativo categorico grazie al lavoro di Eva Macali, a Roberto Gramiccia e al Centro Luigi Di Sarro che ha ospitato l’evento.

 

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