CODICI PIETROSANTI. L’altra metà della pittura

MILANO

TICINESE ART GALLERY

Dal 25 novembre 2022 al 14 gennaio 2023

Mutuando il titolo della storica mostra allestita nel 1980 da Lea Vergine a Palazzo Reale, che portava all’attenzione del pubblico per la prima volta il punto di vista delle donne protagoniste delle avanguardie artistiche, Pietrosanti intende ripercorrere quell’itinerario, allargando lo sguardo al mondo delle autrici attive tra il Cinquecento e le avanguardie del ‘900.
Da tempo Pietrosanti attinge a “potenze” del patrimonio pittorico per realizzare i suoi CODICI. Dopo la recente mostra dedicata ai giganti della pittura (Galleria De Crescenzo & Viesti, Roma 2020) e l’ampio lavoro imperniato sulla cupola di San Antonio de la Florida di Goya (Galleria La Nuova Pesa, Roma 2021), lo scultore ha atteso all’elaborazione di un nuovo ciclo di CODICI dedicato all’altra metà della pittura, concentrandosi su opere di artiste vissute tra il XVI e il XX secolo.
“Perché non ci sono state grandi artiste?” è la questione che Linda Nochlind pone con un breve saggio, agli inizi degli anni ‘70, inaugurando una stagione di studi e ricerche, nonché di straordinari ripescamenti. Le intenzioni di Pietrosanti non sono quelle di entrare nel merito di argomentazioni politico-sociologiche (pur consapevole che tali argomentazioni sono indispensabili per ricostruire in profondità gli accadimenti storici), bensì di impiegare gli strumenti dell’arte per un confronto diretto con l’altra pittura, crudelmente cancellata dalla storia.
Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana, Fede Galizia, Elisabetta Sirani, Rosalba Carriera, Berthe Morisot, Mary Cassatt, Natal’ja Gončarova, Tamara de Lempicka, Frida Kahlo, Georgia O’Keeffe, Charlotte Salomon, dal 1500 al 1900: a fare da controcanto, un grande lavoro dedicato ad Artemisia Gentileschi.
Fulcro dell’attuale esposizione è il grande CODICE Giuditta e Oloferne, composto di 72 tasselli, la misura del tempo impiegato per realizzare Le 72 giornate di Artemisia. Si tratta di un lavoro pensato e realizzato sull’originale della Gentileschi trasposto in scala 1:1. Artemisia realizzò due versioni dell’opera, una prima versione di minori dimensioni conservata al Museo Capodimonte di Napoli (a quanto pare più volte rimaneggiata dall’autrice durante l’esecuzione), e una seconda – scelta da Pietrosanti per il suo progetto – custodita agli Uffizi di Firenze. Le fonti storiche dicono che l’opera venne ultimata a Roma nel 1620, una coincidenza spazio-temporale che ha generato immediata complicità: esattamente quattro secoli fa, Artemisia portava a termine la sua Giuditta nello stesso luogo dove vive e lavora attualmente l’artista.

CODICIPIETROSANTI

In riga, un colore dopo l’altro. Successioni di orizzonti cromatici in cui decantano opere note, anche notissime, riecheggiate, intraviste, familiari oppure impigliate nella nostra memoria, a tratti colta di sorpresa. Roberto Pietrosanti si serve dei fili per intessere un racconto ridotto a un solo essenziale elemento: una storia della pittura attraverso il colore. Non un percorso canonico, ma dettato dalle proprie personali corrispondenze. Un’indagine attraverso le creazioni di altri artisti, alla ricerca di un metalinguaggio universale e insieme esclusivo.

Sono CODICI, ovvero sistemi di segni che si combinano secondo criteri prestabiliti. Tavole di ridotte dimensioni ideate in modo sequenziato e seriale, recinti tonali ritmati da assonanze e divergenze, arazzi minimi in cui la materia ineffabile della luce prende corpo nel filo restituito alla sua primaria natura, alla sua linearità. Si coglie il rigore di tanti altri lavori dell’artista, che qui contiene e riduce il proprio vocabolario in uno spazio definito e misurato, composto secondo

regole austere. Pietrosanti mette alla prova l’invenzione sovrapponendosi allo sguardo di maestri del passato, ripercorrendo i loro itinerari, insinuandosi nelle scelte creative, appropriandosi del loro idioma per convertirlo in nuove soluzioni. Opera fine di traduttore, munito del dizionario dei filati. Da Velázquez a Bacon, da De Chirico a Beato Angelico, con i bagliori di ruggine di Scipione e gli acquatici frammenti di Monet, scorrendo gli ori di Pinturicchio, le superfici smaltate di Antonello da Messina, i pigmenti stridenti degli espressionisti: quasi che una pura astrazione cromatica permetta di cogliere infine la quintessenza autoriale, doviziosamente filtrata attraverso le complicate curve di un alambicco.

Eppure a ben guardare questi rimandi dichiarati fungono anche da pretesti per una narrazione più ampia, tesa a scompaginare la monocromia delle superfici pietrosantiane. Abituati a opere in cui la materia si sublima in perimetri di spazio – i fili che nei primi lavori definiscono porzioni d’aria in calibrate geometrie – oppure si dichiara nella sua potenza primigenia, tra sfere metalliche intrecciate, tavole intagliate e riassemblate, pulviscoli di spilli, ottoni sbalzati e martoriati, assistiamo ora alla materializzazione, al prendere corpo di un concetto labile ed evanescente come il colore. Un colore sostanziato, divenuto materia, prestato alla scultura, reso plastico, tattile, solido. Non si tratta più della consueta tavolozza dell’artista, fondata su terre naturali, bruni profondi, grigi grafite, oltre all’onnipresenza del bianco. Come un navigatore che si inoltra in esplorazioni sempre più ardite, Pietrosanti adotta il linguaggio di artisti del passato, asseconda i passaggi tonali cinquecenteschi, o interroga le campiture nette dell’arte giapponese, profilate di china. Si nasconde, si confonde, si diffonde nei colori degli altri.

Tale processo di individuazione, calibratura, trasposizione è governato da un pensiero lucido, che seleziona, pone in rapporto, stabilisce pesi e contrappesi. Emerge con evidenza la necessità di ordinare e disciplinare entro un sistema controllato un percorso altrimenti a rischio di deriva. Il canone prescelto segue una scansione ternaria: un primo accostamento all’opera, quasi lasciandosi guidare, per bilanciare connessioni e interdipendenze; un secondo di appropriazione più radicata, forte di una maggiore consuetudine; un terzo assai libero, di interpretazione autentica, un colloquio da pari a pari, per così dire. Tre opere ad autore, tre visioni interdipendenti distribuite in altrettante fasi di studio e decodifica, all’esito delle quali prende forma una sorprendente architettura dello sguardo.

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