Belli gli anni ’90 a Roma ma…

di Lucilla Catania

Licia Galizia

Roma, sabato 25 febbraio 2023

Giovedì scorso sono andata a vedere, alla Galleria Nazionale di Roma, la mostra Un presente indicativo, posizioni e prospettive dell’Arte Contemporanea a Roma. La mostra propone una ricapitolazione di quella generazione di artisti nati nella Capitale negli anni ’60 e attivi con la loro ricerca artistica dagli anni ’90 in poi.

Arrivo in Galleria Nazionale e inizio la visita. Entro nelle sale e vado incontro alle prime opere, belle devo dire, e di forte impatto. Continuo e mi ritrovo in una sala (mi dicono si chiami Sala Gramsci) dove vedo, posta al centro, una grandissima opera tridimensionale che occupa la quasi totalità dello spazio calpestabile.

Alle pareti e agli angoli della sala sono presenti altre opere. Mi rendo conto che qualcosa non funziona, l’allestimento di questa sala è del tutto squilibrato. Spero che il curatore della mostra non me ne vorrà, ma non posso non esprimere delle mie motivate perplessità. Questa grande opera giganteggia e rende molto difficile la visione delle altre che risultano strette e costrette in spazi laterali e residuali. Non mi perdo d’animo, mi giro, mi volto, mi chino per cercare la giusta angolazione per poter godere di tutte le opere presenti nella sala ma i miei tentativi risultano vani. Infatti, se la giganto-opera ostacola la visione delle altre, in particolare di quelle attaccate alle pareti, in egual misura quest’ultime interferiscono con la sua piena visione. Insomma vorrei dire che, a mio modestissimo parere, una mostra è un organismo, un unico corpo all’interno del quale tutte le singole parti devono concorrere al bene collettivo e al buon funzionamento dell’organismo nella sua pienezza e totalità. In questa sala, purtroppo, non ravviso questa volontà di condivisa coralità.

Claudia Peill

Continuo la mia visita nelle altre sale seguendo il cammino indicato, salgo sul Mezzanino e percorro il lungo corridoio che congiunge i due spazi espositivi laterali. Infine ridiscendo e ritorno al piano terra, mi soffermo un po’ e, riflettendo su quanto visto, mi avvio verso l’uscita.

La mostra è di indubbio interesse ma iniziano ad assalirmi dei dubbi e anche la netta sensazione che qualcosa manchi, un’assenza…, anzi tre. Vengo al dunque: come mai non ho visto le opere di Licia Galizia, Claudia Peill e Daniela Perego? Queste tre artiste, nate tra il ’61 e il ’66, rappresentano delle punte di eccellenza nella ricerca artistica di quegli anni (a Roma e in Italia) in primis per l’alta qualità del loro lavoro ma anche per la coerenza, la tenacia e la determinazione dimostrate nel corso del loro iter artistico e professionale. Non sono io a dirlo ma le decine e decine di cataloghi di mostre e manifestazioni alle quali queste autrici hanno partecipato. Mostre importanti in spazi espositivi pubblici (Quadriennali, Rassegne storiche, Musei Istituzionali, ecc.) e spazi privati altrettanto conosciuti. Aggiungo, inoltre, che queste artiste hanno collaborato, sempre in quegli anni, con alcuni degli artisti presenti in mostra. La loro assenza è qualcosa di inspiegabile e di profondamente ingiusto. Mi sembra davvero difficile pensare che il curatore, storico dell’arte e studioso delle esperienze artistiche del ‘900, non conosca queste tre artiste che con le loro opere avrebbero dato uno spaccato ben più ricco e completo dell’Arte degli anni ’90 a Roma.

Daniela Perego

Ma non solo, questa mostra è composta da 14 artisti di cui solo tre sono donne, una esigua e ristrettissima presenza di quelle artiste che, per dirla con Lea Vergine, rappresentano L’altra metà del cielo. Ancora una volta, sono dolorosamente costretta a notare, come lo sguardo dominante sia quello maschile che a questo punto, visto l’attuale contesto socio-culturale italiano ed europeo che si fonda e sempre più si fonderà sull’inclusione e sulla partecipazione, rappresenta un limite.

Un limite grave al quale, almeno parzialmente, si poteva ovviare aprendo ad una maggior  presenza delle artiste che, Viva Dio, c’erano e ci sono. Mi rendo conto che questa apertura richiede una consapevolezza e un’attenzione che non tutti hanno, sia i curatori che le curatrici. La questione riguarda ambo i sessi ma se non si intraprende pienamente la strada dell’inclusione e della parità di genere saremo destinati a vivere sia la vita che l’arte a metà, cavalieri e amazzoni dimezzati e infelici.

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