ANNA MARIA PANZERA dialoga con VERONICA MONTANINO in occasione del IV appuntamento di SIC a Roma, presso lo studio di Daniela Perego

di Valentina Gramiccia

Dialogano insieme a loro Lucilla Catania, Emma Ercoli, Laura Iamurri, Maria Grazia Tolomeo, Shara Wasserman. Si ringraziano tutti i presenti.

Anna Maria Panzera: raccogliendo gli appunti e le idee per questa intervista, ho scoperto che è difficile, paradossalmente, presentare un’artista che si conosce da tanti anni. Un piacere ma anche una responsabilità. Veronica Montanino lavora dagli anni 2000 ed ha esposto le sue opere nel corso degli anni partendo da una formazione non tradizionale, non accademica che quindi è stata giocata tutta sul campo, fondata sull’esigenza personale, sorgiva di costruire un’identità artistica e poi anche di sperimentare. Questo ha dato al suo lavoro, almeno a mio parere, sempre la sensazione di un grande movimento, di un flusso dinamico, di una continua trasformazione. Questo è il filo rosso dell’attività che lei ha svolto. Il tratto distintivo dei suoi lavori è certamente l’uso spregiudicato del colore. Dico spregiudicato se messo a confronto con la realtà artistica contemporanea, per lo meno quella più diffusa attualmente nei circuiti accreditati in Italia e in particolare a Roma. I colori di Veronica sono colori vivacissimi, che ricordano quelli dei primitivi toscani: Beato Angelico, Lorenzo Monaco, Pontormo (i rossi, i verdi, i gialli…). Colori restituiti in chiave assolutamente contemporanea, attraverso gli smalti e i materiali sintetici. Questa tendenza a usare il colore si affianca anche all’esigenza di farlo uscire perennemente dalla cornice, dai confini dentro cui il colore è solitamente racchiuso (superficie colorata e anche contornata). Invece, nel caso di Veronica, questi contorni sono sempre oltrepassati. Il colore supera il limite del quadro. Tutta la sua opera è caratterizzata dallo sconfinamento: di limiti e di formati, ma anche di materiali, tra oggetti e ambienti, perché il colore nei suoi lavori si deposita spesso sui pavimenti e sulle pareti. Sconfinamento anche fra parola e immagine, fra produzione e curatela. Veronica sperimenta appieno lo sconfinamento. A proposito di questo, mi piacerebbe sapere qualcosa in più, dal suo punto di vista.

Veronica Montanino: Certamente, la questione dello sconfinamento mi ha sempre motivata. Non ho mai avuto un pregiudizio sul formato del quadro e ho lavorato anche su forme chiuse, ma mi ha sempre interessato l’idea di andare oltre i loro confini. In questo senso la liquidità del colore è sempre stata un mezzo utile, avrebbe potuto farmi guadagnare spazio, per sconfinare nell’ambiente, scavalcare gli ostacoli architettonici e così inglobare anche lo spettatore nell’immagine pittorica. Sicuramente lo sconfinamento è un’esigenza dell’artista nonché un tratto tipico del contemporaneo. A partire dagli anni ’50-’60 (pensiamo a Fontana), e poi attraverso tutti i ’70, “sconfinano” tutti. Anche se poi assistiamo al ritorno verso l’oggetto, in una dimensione più contemplativa, questa tendenza a farsi ambiente dell’arte  permane e si sviluppa in una varietà di modi e linguaggi. Io l’ho cercata e perseguita dagli anni 2000 ad oggi.

Lucilla Catania: A mio avviso è interessante il tuo approccio alla tridimensionalità perché permette di lavorare al di là della superficie quindi nell’ambiente, come nel caso del lavoro che hai proposto nel Parco di Sculture. Si tratta di un lavoro nuovo all’interno del parco, anche rispetto alla maggioranza degli artisti presenti;  è una scultura-non scultura. Qualcosa che si fa largo nella natura. C’è una componente plastica, di materia (il cemento) ma persiste comunque un approccio fortemente pittorico, come ad esempio nel riflesso delle piante che si specchiano nelle vasche che restituiscono le forme e i colori dell’ambiente esterno.

Maria Grazia Tolomeo: La metamorfosi, che è il linguaggio di Veronica, si avvertirà tantissimo. L’opera sarà ogni giorno diversa, non propone solo un approccio pittorico, fa un discorso sul mondo.

V. M.: Io ci conto tanto, su questo. Quando sono stata invitata a realizzare questo lavoro per Sculture in campo mi sono posta subito il problema di non essere una scultrice in senso canonico, diversamente dagli altri autori presenti nel Parco. Mi sono chiesta come “ragiona” uno scultore, non essendo io tale per definizione, e credo ci sia una differenza. Così ho pensato di penetrare il terreno, di fondermi con esso, senza creare un oggetto autonomo. Il mio lavoro è collocato in una zona liminare, di confine, a ridosso della valle, e Lucilla non avrebbe potuto scegliere posto migliore per me. Mi era congeniale la posizione liminare, immediatamente prima della gola su cui si affaccia il parco, dove comincia la boscaglia. Quindi lo spettatore arriverà e vedrà sotto di sé questi specchi d’acqua, che gli restituiranno il suo riflesso, il cielo, le piante; si attiverà un processo dinamico, favorito dalla dimensione metamorfica dell’acqua e dalle sue gambe, quando si sposterà. Tutto cambierà nel corso del tempo: si popolerà di forme di vita, si farà habitat, ecc. La porosità del cemento favorirà la proliferazione dei muschi che a loro volta cambieranno il colore delle superfici. Inoltre, scoprirò in corso d’opera la morfologia delle rocce, che influenzerà molto l’aspetto delle vasche, le quali recano in sé una dimensione scultorea, indubbiamente. Questo cambiamento sarà continuo e ciclico, seguirà le stagioni e il tempo. Questo aspetto mi sembrava eccitante per cui ho colto questa sfida: lasciare la natura fare il suo corso. Se pur nel progetto c’è l’intenzione di intervenire anche con delle colorazioni artificiali per l’acqua delle vasche.

Tornando all’installazione dell’opera, mi affascinava il fatto che essa potesse iniziare a far parte di quell’organismo che è il Parco, l’ambiente, il terreno, la vallata. Quasi come se l’opera potesse vivere in eterno con la natura, diventando parte integrante del ciclo biologico.

Nel 2015 sono stata invitata a partecipare ad un Festival del Paesaggio a Regent’s Park a Londra. Insieme all’architetto paesaggista che mi aveva chiamata, Michela Pasquali, abbiamo realizzato un giardino acquatico progettando e costruendo delle piattaforme galleggianti colorate con dei fori per l’inserimento delle piante. Nonostante fosse un lavoro artificiale, era tuttavia diventato un nuovo habitat, con nidi di uccelli e altri animali, forse attratti e ingannati dai colori che si confondevano con quelli dei fiori sgargianti tutt’intorno.

Shara Wasserman: Riguardo a quello che dicevi sul tuo non essere scultrice… Io invece penso che forse uno scultore è più pittore, altrettanto quanto tu sia scultrice. In particolare nel parco, lo scultore pensa in relazione all’ambiente intorno, quindi considera spazio, colore, riflessi, prospettiva; e nel tuo lavoro c’è tridimensionalità, rapporto con lo spazio. Forse queste parole non sono più utili, c’è ibridazione fra esse.

M. G. T.: Mi viene in mente Penone, che si ritiene scultore proprio perché tocca la materia. Quando si vuole accostare a Gian Lorenzo Bernini (si fa riferimento alla mostra Gesti Universali, Galleria Borghese, 14/3-9/7 2023; n.d.r.), è perché anche quest’ultimo “toccava” il marmo, che era un materiale naturale. Non si tratta di fare oggetti, di usare un piedistallo, ma di lavorare sulla natura che cambia, fare arte della vita.

Laura Iamurri: Accade per la percezione e per la chiave di lettura che l’artista ha del proprio lavoro, che non è sempre immediatamente percepibile. Kounellis si è sempre detto pittore, per esempio. Quindi tu lascerai andare la tua opera al mimetismo, magari intervenendo di tanto in tanto.

V. M.: Sì, come dicevo non escludo che nell’acqua siano riversati dei coloranti, forse anche periodicamente, che agiscano sulla trasformazione naturale; il bozzetto richiama questa fase del lavoro. L’importante per me è che l’opera sia viva: penso sia fondamentale per un parco di sculture; personalmente non mi corrisponde – anche se non la critico – l’opera isolata rispetto all’ambiente circostante, quella che mantiene un’identità nettamente separata. Trovo interessante che l’installazione in un parco renda l’opera parte di quel macro-organismo, eterna e metamorfica com’è eterna e metamorfica la natura, parte di essa.

A. M. P.: A proposito di acqua e di giardini: tu hai lavorato più volte con questa materia, giocando sempre fra natura e artificio, a volte anche in maniera particolarmente penetrante. Per esempio, Parterre, il lavoro che hai realizzato a Catanzaro nella corte interna del Museo MARCA, dove sempre insieme all’architetto Michela Pasquali e al garden designer Maurizio Bartolini, hai creato ex novo un ambiente naturale che si univa a degli inserti innaturali, artificiali, superfici specchianti, moduli colorati: la funzione originaria di quello spazio mutava, all’improvviso alludendo a un giardino. Poi hai continuato a lavorare con l’acqua, che hai riscoperto successivamente con il lavoro eseguito in una piscina svuotata, intitolato Habita. Anche in quel caso c’era una ricerca sulla mutevolezza del luogo: la piscina bianca, svuotata, costituiva un’area inizialmente circoscritta e separata dalla natura intorno, poi ad essa raccordata grazie all’inserimento di una serie di elementi vegetali, fronde, rami, sui quali hai lavorato attraverso la fascettatura con tessuti. L’elemento acqua era racchiuso in una vasca da bagno che si adagiava sul fondo. Ci puoi raccontare che tipo di passaggio è accaduto in quel caso?

V. M.: Al MARCA di Catanzaro ho lavorato per la prima volta forse con i materiali vegetali. Appena entrata in quel Chiostro vuoto ho avuto subito l’idea di realizzare un giardino. È stato un lavoro collettivo, progettato e messo in opera insieme a  varie persone con competenze differenti e complementari, ed anche con i ragazzi dell’Accademia di Belle Arti. È stata una bellissima esperienza. Riflettendo, realizzare un giardino non è nemmeno propriamente un fatto artistico, però era la sua dimensione temporanea a fare la differenza e questo spiazzava un po’ tutti, anche per lo sforzo di porlo in essere, fra trasporti di piante e prato, creazione degli attraversamenti, necessari per raggiungere la sala dove si sarebbe svolta la conferenza stampa. Era una visione, un’apparizione e, visto dall’alto del ballatoio, su cui affacciavano le sale del piano superiore che ospitavano la mia personale, sembrava un quadro. Anche in quel caso, ho trattato il prato del giardino come se fosse una materia liquida, l’ho fatto arrampicare sulle pareti. Era  una delle chiavi di lettura di tutto il mio lavoro: la stratificazione, con successive cancellazioni e nuove apparizioni. È un po’ la maniera della natura e del suo continuo divenire.

Tornando al lavoro della piscina, invece, quello è stato il primo lavoro in cui ho utilizzato l’acqua. La piscina era completamente vuota e bianca, un’architettura vergine scavata in un ambiente naturale. Io ci ho trascinato dentro una serie di elementi del paesaggio che l’hanno colonizzata. La natura in quel caso si artificializzava in rapporto alla natura “vera” che la sovrastava. La vasca da bagno era diventata una sorta di giardino acquatico. Avevo rivestito la superficie con una stoffa floreale e riempito la vasca con acqua colorata. Anche lì, come nella corte, ho sentito l’esigenza di riempire e trasformare in un habitat un ambiente semi-chiuso e vuoto. Mi pare che siano tutte fasi e visioni collegate, in cui la liquidità, anche trasformata in altro, rappresenta un nucleo ideativo importante.

A. M. P.: Però usavi la natura come un materiale. Anche questo è un elemento di novità. Come nella bellissima mostra Rami nel Casino di Villa Torlonia curata da Maria Grazia Tolomeo, dove in un ambiente molto caratterizzato da una forte identità architettonica, con una propria straordinaria presenza decorativa, sei riuscita a intervenire prendendo l’elemento naturale “da fuori” – i rami appunto – e facendolo dialogare con gli ambienti e le sale attraverso il colore e il tessuto colorato. La compenetrazione di natura e cultura ha aperto anche nuove strade di ricerca. C’è un continuum anche con il lavoro del MARCA, effettivamente, perché anche in quel caso interno ed esterno si compenetravano.

M. G. M.: Era la prima volta e si vedeva benissimo il rapporto con gli affreschi e con il giardino. È interessante pensare che anche Giuseppe Jappelli, chi realizzò il giardino, abbia fatto un discorso analogo e inverso, riempiendolo di sorprese architettoniche. Nel far entrare la natura in uno spazio interno, come nel lavoro di Veronica, è importante aggiungere che non c’è alcuna dimensione concettuale: la natura non si sposta semplicemente da un luogo a un altro, si muove in un flusso organico.

A. M. P.: A proposito di manipolazione dell’elemento naturale, c’è stata un’altra esperienza nel 2018, a Genzano con la partecipazione all’Infiorata e con l’installazione Tritonia in Palazzo Sforza Cesarini. Personalmente l’ho percepita come un momento di passaggio: da un lato, all’interno del palazzo c’era una sorta di teca incastonata nel pavimento, illuminata e calpestabile (quindi già di per sé si giocava con i riflessi), all’interno della quale erano stati inseriti degli oggetti eterogenei e colorati che mimavano elementi naturali, marini, infiorescenze; come una sorta di “emergenza barocca” della natura lacustre (il lago di Nemi si trova di sotto la mole) dalle lastre dell’impiantito. Mi ha ricordato le seicentesche shaking box, tipico manufatto da camera delle meraviglie che attivavano la vista e la voglia di scoperta. Dall’altra parte, al di fuori, c’era invece il tuo inserto di petali sulla strada dell’Infiorata, realizzato dalle mani esperte dei maestri infioratori. L’evento era effimero, durava solo un giorno, in attesa della corsa dei bambini che, come si sa, avrebbe scompaginato tutta la composizione: immagine fortissima del futuro che avanza. In questo secondo lavoro, quindi, c’era l’elemento organico, non la sua mimesi, unito alla tua capacità di giocare con le superfici specchianti. Il rapporto fra il dentro e il fuori è come un’immagine moltiplicata.

V. M.: Anche in quel caso, come mi capita spesso, tutto è nato da una casualità. L’importanza delle sale di Palazzo Sforza Cesarini avrebbe preteso uno sforzo allestitivo impossibile in quel momento; invece, il pavimento antico, protetto dalla teca, era una sfida interessante: il limite chiuso della vetrina è stato lo stimolo a fare qualcosa che sembrasse vivo, che desse la suggestione del movimento, di forme che scivolavano l’una nell’altra.  Inoltre, per un’artista come me, affascinata dallo sconfinamento, dall’ambiguità delle prospettive, lo specchio mi aiuta a moltiplicare gli elementi visibili, a includere l’intorno, e mi aiuta anche a sollecitare una riflessione sul sé. Le superfici specchianti mettono molto in gioco la sensibilità e l’attività dello spettatore.

L. C.: Nel tuo lavoro osservo una meticolosa attenzione al dettaglio e alla moltiplicazione. C’è una messa in scena della vita, fatta di animali, figure e personaggi, quasi la rappresentazione di un gioco fanciullesco che per essere capita va osservata con calma, con cura. C’è un microcosmo che appunto va indagato con una lente di ingrandimento, per non perdersi nulla. Mi domando se quest’aspetto rispecchi o meno la tua psiche di artista.

Emma Ercoli: Le opere di Veronica sono spaesanti, non si prestano alla contemplazione ma diventano esperienza: sono immersive, tattili, suggeriscono la possibilità di viverci dentro. Poi sì, la metamorfosi è anche immagine di un pensiero, ma mi sembra che tutto il processo creativo, insieme alla presenza dello spettatore – tra pensiero e sensazioni corporee – vengano coinvolti, non solo il guardare.

A. M. P.: È vero, anche perché la contemplazione è uno sguardo che si ferma, fisso in un certo senso, forse anche intimidito e rarefatto. Qui, invece, parte un’attivazione, la cui intensità dipende dalla disponibilità e dalla sensibilità del fruitore, dal tempo che egli è disposto a dedicare alla fruizione e al godimento dell’opera. Un’opera multidimensionale, una composizione multiforme che mette in gioco tante cose.

V. M.: Ho notato in prima persona, spiando le reazioni del pubblico che osserva i miei lavori, una serie di reazioni diverse: c’è chi rimane angosciato dalla molteplicità dei piani di osservazione. O chi, invece, si diverte a indovinare gli elementi come in una caccia al tesoro.

L. C.: Sta di fatto che questa spregiudicatezza nella moltiplicazione degli elementi è sintomo di una notevole libertà mentale.

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