WEIWEI, UN PROGETTO A LESBOS. PER PARLARE DEI MIGRANTI, di Valentina Bernabei (La Repubblica, 11-1-16)

La scritta riportata sull’insegna posta nell’ingresso della casa studio di Pechino di Ai Weiwei è irriverente e diretta come la sua stessa arte: “258 Fake”. Dietro quella scritta c’è un mondo, quello dell’artista cinese che ha fatto parlare di sé in diverse occasioni e a tutte le latitudini, diventando presto un simbolo moderno di ribellione. È un personaggio discusso, nei confronti del quale pare sia ancora lecito chiedersi se è un artista o un attivista. Weiwei, nonostante le difficoltà e la prigionia del 2011 (anno in cui è stato arrestato per 81 giorni), continua a dire la sua con coraggio e a lasciare il segno. La scorsa settimana, nei primi giorni del 2016, ha convocato una conferenza stampa a Lesbo (dove durante le vacanze natalizie sono stati aperti due campi di accoglienza che hanno ospitato circa 6mila rifugiati in attesa di spostarsi ad Atene e poi nel nord Europa) per annunciare la sua decisione di istituire nell’isola greca un laboratorio permanente per riportare l’attenzione sulla crisi dei migranti. “Come artista, io devo essere in relazione con le lotte dell’umanità… Non ho mai separato queste situazioni di crisi dalla mia arte” ha dichiarato. Una chiara testimonianza di come l’attualità e la politica continuano a indirizzare i lavori dell’artista che, questa volta, riparte dall’isola del Mar Egeo, che è stata punto di ingresso principale per più di 800mila migranti, molti dei quali siriani, arrivati in Europa dalla Turchia nel 2015. “La gente ­ ha precisato Ai ­ deve capire cosa sta realmente accadendo qui, deve aiutare la Grecia e, cosa più importante, deve salvare la Grecia”. La stessa attenzione in passato Weiwei l’aveva avuta nei confronti della Cina, dove l’artista è nato (a Pechino) nel 1957, ma dove ha iniziato ad avere popolarità soltanto dal 2003, periodo in cui fonda il fake design e inizia a collaborare con i celebri architetti Herzog & De Meuron, per la progettazione dello stadio nazionale di Pechino, il “Bird’s Nest”. Prima di allora visse a lungo a New York (dal 1981 al 1993), dove non passava un giorno senza fotografare qualcosa, di tutto. La macchina fotografica era per lui un mezzo per tenere il suo diario personale, un diverso modo di disegnare, come poi è stato il suo blog (aperto nel 2006 e chiuso nel 2009 dalle autorità), come ha in seguito affermato l’artista. Sono stati due grandi eventi (di diversa natura) ad essere parte del suo successo internazionale: le olimpiadi (con la lavorazione allo stadio olimpico e la successiva polemica) e poi il terremoto del Sichuann, nel maggio del 2008. Quest’ultimo è passato tragicamente alla storia con la morte di migliaia di persone, tra cui molti giovani studenti: ad essi Weiwei dedicò un’opera (un elenco di nomi delle vittime decedute) che fece scalpore, soprattutto per l’indagine che l’artista stesso avviò per conoscere l’esatto numero dei morti e per chiarire le responsabilità di chi aveva edificato gli alloggi studenteschi crollati. La denuncia civica e sociale continua ora con l’impegno assunto a Lesbo. Nella seconda metà dell’anno, inoltre, Weiwei è atteso a Firenze per una grande personale (organizzata dalla Fondazione Palazzo Strozzi) che mostrerà una vasta selezione di opere della sua produzione pluridecennale e una serie di nuove installazioni realizzate appositamente per l’intero Palazzo Strozzi (Cortile, Piano Nobile e Strozzina). Ci si aspetta di vedere alcune delle sue opere più importanti, come i suoi vasi, le sedie, i suoi semi di girasole in porcellana con cui ricoprì il pavimento della Turbine Hall della Tate di Londra (Sunflowers Seeds, 2010), le foto irriverenti della serie Study of Perspective, in cui dietro l’obiettivo viene alzato il dito medio guardando importanti luoghi istituzionali. Ci aspettiamo di vedere in grande forma il figlio del grande poeta cinese imprigionato (Ai Qing, 1910­1966) che non ha mai perso l’amore per la poesia e per la difesa dei diritti. È attesa anche la realizzazione di nuovi originali lavori creati appositamente per spazi Italiani, come quello che Ai Weiwei aveva realizzato nel 2013 all’interno della Chiesa di Sant’Antonin a Venezia, nel sestiere Castello. S i trattava di S. A. C. R. E. D. (titolo acronimo dalle iniziali delle parole supper, accusers, cleansing, ritual, entropy e doubt), installazione site specific composta da grandi blocchi realizzati in ferro e fibra di vetro, con cui i visitatori potevano guardare all’interno attraverso fessure. Quel che c’era dentro era la riproduzione reale dei luoghi in cui l’artista, per 81 giorni, fu tenuto prigioniero sotto sorveglianza costante, come è raccontato duramente in SACRED. All’epoca Ai Weiwei non poteva lasciare il suo Paese – ha riavuto il passaporto dal governo cinese solo a luglio 2015 – e all’inaugurazione veneziana arrivò sua madre, Gao Ying, prima sostenitrice dell’artista.

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