SE N’E’ ANDATO IL PIU’ GRANDE!

Claudio-Abate-Jannis-Kounellis-CandelaSalutiamo il maestro Jannis Kounellis pubblicando un’intervista che il grande greco rilasciò  a Roberto Gramiccia nel 2009 nella sua casa romana.

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Intervistare Jannis Kounellis non è cosa che lascia indifferenti. Farlo nella sua casa-studio, davanti ad una grande opera coi sacchi e col carbone accentua l’emozione. Anche se il modo di porsi del maestro è semplice e rilassato. Forte, ma suo malgrado. Gentile e disponibile secondo la tradizione di una cultura mediterranea che fin dal suo iniziale porsi appare manifesta. Bevendo un tè e parlando di politica, inizia un dialogo che è teso ma amichevole e solidale. L’atmosfera è quella creata da persone che condividono l’idea di una crisi generale del pensare e del fare, ma che, ostinatamente, non si rassegnano al peggio. Jannis Kounellis si definisce un “pittore della tradizione” ma così facendo non vuole negare nulla del suo essere un artista di avanguardia. Questo pittore, così ama autodefinirsi – di origini greche (nato al Pireo nel 1936) e naturalizzato italiano (Roma è la sua città) dagli anni ’60 è la figura di spicco di un movimento che si è imposto all’attenzione internazionale. Parliamo dell’Arte povera che ha trasportato nei musei e nelle gallerie del mondo l’interpretazione che di essa ha dato questo maestro: travi di ferro e sacchi di carbone, cavalli, pappagalli, sacchi di caffè, bicchierini di grappa, fuliggine, fuoco, coltelli, quarti di bue ed altro ancora…. Strumenti di un “teatro” capace di dar vita a un nuovo e poetico linguaggio in grado di conciliare antico e moderno, passato presente e futuro. Una parabola creativa ed energica (dissonante rispetto agli sfinimenti del postmoderno) la cui forza dirompente è ormai riconosciuta nel mondo.

 

Alla domanda “Qual è stato nell’ambito della sua ricerca, il suo gesto più importante”, Lei ha risposto “uscire fuori dalla tela, per avere la libertà di stabilire un rapporto dialettico con lo spazio”. Perché questo gesto è stato più importante degli altri?

K: Quando eravamo giovani, negli anni della mia formazione, a dominare era una cultura tonale che interponeva una distanza tra te e l’opera, una distanza critica. Nel mio caso, questa distanza viene meno. Si tratta di un aspetto fondamentale. Anche in un quadro di Pollock, per esempio, non c’è questa distanza. C’è in quadro di Morandi. Con Pollock tutto cambia. La distanza scompare e prende vita una pittura espressione di una nuova visione del mondo, completamente diversa da quella di una borghesia provinciale che ne aveva fornito la copertura di gusto e ideologica. Non è una critica a Morandi. Semmai è una difesa di De Chirico e della sua capacità di creare altre e innovative visioni.

 

Perché si definisce un pittore, pur frequentando la terza dimensione e la vastità dello spazio?

K: Alla mia prima mostra a Roma, presso la galleria “La Tartaruga di via del Babuino, venne Mario Mafai il quale mi disse: “Jannis, tu sei veramente un pittore!” E allora io capii, anche per il modo con cui me lo disse, che lo ero veramente. Non era solo un apprezzamento per la qualità della mia pittura. Ma una cosa più profonda. Il riconoscimento di uno sforzo continuo che andava al di là delle caratteristiche delle mie singole opere. E’ per questo motivo che io continuo a dire a tutti che sono un pittore.

 

Sappiamo che Masaccio, Caravaggio, Picasso sono artisti che hanno segnato la sua formazione. In che modo lo hanno fatto?

K: Partiamo da Picasso, da “Les Demoiselles d’Avignon”. Questo quadro non ha segnato solo la mia vita, ma quella di tutti. Di tutto il secolo scorso. Ha segnato la modernità. E’ l’inizio di una violenta rivoluzione che ha contraddistinto l’arte moderna.

Masaccio e Caravaggio  invece, hanno segnato la mia formazione perché sono due pittori ideologici. Il primo è un umanista del Rinascimento e il secondo un controriformista. Entrambi hanno un’evidente matrice ideologica.

 

Lei ha detto: “L’emotività è dinastica ed esclusiva in quanto traccia una linea di discendenza”. Qual è il suo legame con la Tradizione?

K: Partiamo dal Caravaggio. Qui a Roma, in queste strade, sono nati dei pittori ombrosi. Non chiaristi… Impossibile immaginare qui, come in Spagna, una pittura chiarista. La Modernità appunto qui è ombrosa e drammatica perché proprio loro (Caravaggio e gli altri) hanno scoperto il dramma. E’ tradizionale portare avanti questo segno fondamentale, non solo per l’Italia.

 

Che ne pensa di Duchamp?

K: E’ un grandissimo artista. Però io penso a Picasso, non a Duchamp

 

Chi preferisce fra Wharol e Pollock?

 K: Sicuramente Pollock, per via dell’adesione alla tradizione. Wharol appartiene alla cultura dei multipli mentre Pollock è unico. Come unico è Caravaggio. E dunque la scelta è scontata.

 

Qual è il suo giudizio sulla Transavanguardia?

 K: Molti degli artisti di questo movimento sono miei amici. Tuttavia, Io non riesco a capire le problematiche relative alla necessità di ritorno all’ordine, alla pittura, sollevate dalla Transavanguardia. Dove l’Avanguardia è disordine, la Transavanguardia è ordine. Impostato così effettivamente il gruppo ha una sua visione ideologica. Al suo interno ci sono degli artisti anche validi. Però rimane aperta questa disputa fra ordine e disordine…

 

Per Lei un’opera è un atto unico o il capitolo di un percorso narrativo?

K: La mostra è un atto unico: non l’opera. La mostra personale è giovane. L’idea di mostra personale nasce attorno al 1920-30 e colloca il pittore in un’altra posizione. Forse quella che nell’800 aveva il letterato. Effettivamente crea una drammaturgia. Qualsiasi mostra personale crea una drammaturgia.

 

Se dovesse raccontare il suo lavoro, lo farebbe sottoforma di poema epico, di poesia o di romanzo?

K: Raccontare? Perché? Il lavoro è già un racconto. Non si può raccontare un lavoro. Sarebbe come raccontare un racconto. Io non faccio delle cose descrittive. E tutto il lavoro che ho fatto non avverte la necessità di descrivere, ma di presentare (non di rappresentare).

 

Se dovesse scattare una foto che immortali il suo lavoro, sarebbe a colori o in bianco e nero?

K: Io penso che il bianco e nero sia meglio per una foto. Se parliamo di un dipinto, allora è un’altra storia…

 

Un artista è interprete del mondo o di se stesso?

K: Bisogna vedere le condizioni in cui un artista nasce. Uno come me nasce in un periodo storico in cui non si avvertiva il bisogno estremo di raccontare se stessi. Parlo dell’Italia del tardo dopoguerra dove la drammaticità la trovavi in ogni angolo della strada. In quella situazione, le priorità erano altre e avevano poco a vedere col narcisismo individuale.

 

Se l’artista si fa portavoce di un’interpretazione del mondo, che rapporto deve avere col senso di responsabilità politica e civile?

K: Bisogna di nuovo tornare a Picasso. C’è una grandissima differenza tra una posizione artistica vicina alla moda e “Guernica”. Forse il tempo “leggero” del Postmoderno serve proprio a impedire che nasca un artista capace di fare “Guernica”. E‘ la forza schiacciante della globalizzaizone. Schiacciante e maliziosa che non ha bisogno, anzi, teme “Guernica”. La libertà fa paura. La libertà l’aveva Caravaggio.

 

Bruno Corà, nel testo critico che accompagna il catalogo della mostra milanese “Atto Unico”, la definisce “un artista che non ha rinunciato alla facoltà attiva di lettura critica della storia e della realtà”. Alla luce di questo, si sente un artista “ideologico”?

K: Perché, esiste forse un artista che non sia ideologico? Lo sono tutti. Anche quelli che si definiscono anti-ideologici.

 

L’artista è solo? Che rapporto c’è fra arte melanconia e sofferenza?

K: Il problema della melanconia è che bisogna vederla in rapporto all’ottimismo voluto/imposto dai poteri economici. Di fronte a questa “ interessata marea allegra”, parlare di melanconia è come mettere un dito nella piaga. Gli artisti del Nord hanno fatto della melanconia una cifra. Ma anche il nostro De Chirico ha la melanconia nel sangue…

 

E fra arte e paura della morte?

K: Ieri ho ricevuto un invito da una Galleria di New York con su impressa la testa di un uomo morente. E’ strano, considerato che gli americani sono così ottimisti… L’idea della morte è un problema occidentale. Bisogna dirlo. Passare dalla bandiera americana di Jasper Jones a questo disegno di un uomo morente richiede un bel coraggio! Bravo l’artista che lo ha realizzato e chi ha deciso di utilizzarlo per l’invito!

 

In un’intervista, Lei ha detto che l’arte (come la libertà) nasce dalla consapevolezza di una mancanza, di un vuoto, di uno spazio da colmare. Può spiegarci questo concetto?

K: E’ lo stesso concetto della poesia. Poiesis in greco vuol dire fare. Dunque faccio una cosa che non c’è. E questo è il senso della poesia. E dell’arte.

 

Se le suggerisco la parola “casa” cosa le viene in mente?

K: C’è un quadro di Munch ambientato dentro uno studio: c’è un orologio a pendolo, il letto, la cucina; anche la stanza di Van Gogh è una casa. Un pittore non torna a casa per riposare. No. La casa ha un significato diverso. E’ un posto per continuare a pensare, essendo protetto.

 

Feuerbach diceva che siamo quel che mangiamo. Il vino che beve, il cibo che mangia, la sigaretta che fuma pensa che possano influenzare il suo lavoro?

K: Io non sono un gran mangiatore. Ma ho il vizio del fumo. Mi piace molto. Fumo perché mi piace. Non bevo molto, ma…fumo da quando sono ragazzo. Perché? Non saprei dirlo… Non è un’abitudine, è qualcosa di più. Anche fumare nasce come libertà. Il fumo poi alimenta anche una grande letteratura. E finalmente… fa male.

 

Qual è il suo rapporto con la materia e con gli oggetti consumati dall’uso?

K: Ieri sentivo il Papa parlare della religione cristiana. Diceva che non è solo una religione spirituale ma “la puoi toccare”. Questa è la grande diversità. E’ una religione legata al valore della pelle. Se tu vedi la Madonna di Tiziano, ti accorgi che è anche una bella donna. E’ un’altra cosa, meno scostante di un’immagine bizantina (scheletrica, senza pelle). Nella cristianità, la pelle diventa problema di santità. Questa è la differenza: il rapporto con la materia (anche quella divina) passa attraverso la pelle. E’ un’esperienza sensoriale. Non bisogna essere chiusi nel dogma di un neo- platonismo resuscitato. Il divino non è al di fuori dell’uomo. Ogni tanto bisogna dar ragione ai cattolici!

 

Le sbarre di ferro, i sacchi e il carbone sono ricorrenti nel suo lavoro. C’è un motivo?

K: Guarda questo lavoro (Kounellis indica l’opera alle sue spalle): queste lastre di ferro, se ne misuri le dimensioni, corrispondono a un letto matrimoniale. Tutti questi lavori si riferiscono all’uomo. Non è un’ossessione ma un principio: quello di non volere-potere abbandonare l’uomo.

 

Il suo fare arte appare in qualche modo espressione di una visione teatrale e barocca. Condivide questo giudizio?

K: Perchè una cosa di Caravaggio non è teatrale? Tutta la cultura pittorica italiana è teatrale perché è drammaturgica. Anche il Cristo di Mantegna è teatrale.

 

Saprebbe citare una ragione sulle altre della crisi materiale e morale che attraversa il pianeta?

K: Io penso che lo sbaglio sia di prendere sul serio il progresso. Perché una famiglia che vive in Amazzonia non ha i nostri stessi problemi. Vive benissimo. Il problema è nostro. E’ la nostra ipocrisia, i nostri interessi. La gente non ha bisogno di cambiamenti. Il bisogno lo avvertiamo perché ci viene indotto. Dunque non puoi dire a un uomo della giungla di essere come un cittadino di New York che gioca in borsa! E’ la nostra violenza che produce questi effetti. Violenza e basta. La globalizzazione è lo strumento estremo di questa pratica. Rende tutti uguali. E poi in fin dei conti la globalizzazione è una bolla di sapone.

 

Pensa che sia ancora possibile trasformare il mondo, coniugando per tutti libertà e giustizia a prescindere dal censo, dall’etnia, dal paese di origine e dalla religione di appartenenza?

K: La libertà è anche onirica. Non è un fatto legalmente definibile. Ossia, la libertà la immagini. Ne sei attratto. Ti fa muovere. E’ un sogno che non finisce. Dunque bisogna essere sempre per la libertà. Perché ti aiuta a sognare. E questo è indispensabile per chi fa il mio mestiere.

 

Crede in Dio?

K: Ho fatto un lavoro per la Chiesa di Santa Croce in Gerusalemme. Il portale dell’orto. Prima era un orto dogmaticamente chiuso. Adesso è trasparente. Ci si vede dentro, mentre prima non si vedeva nulla. Capisco l’ideologia di un cristiano, ma non quella del credente di una volta. Bisogna capire il cristianesimo. A questo prima ero meno interessato. Solo adesso capisco la realtà drammatica del cristianesimo.

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