ROBERTO LAMBARELLI risponde alle cinque domande di Hidalgo

Roberto Lambarelli è direttore della rivista “Arte e Critica” e titolare di Storia dell’arte presso l’Accademia Nazionale di Danza. Formatosi negli anni settanta, durante la fase finale della rivoluzione culturale, la sua attività ha avuto inizio sul finire di quel decennio, per svilupparsi poi nel clima difficile della controversa ricostruzione degli anni ottanta.

A partire dal 1981, ha curato mostre in spazi istituzionali pubblici e privati, ha organizzato mostre, convegni e manifestazioni di varia natura dedicati all’arte contemporanea. Tra le mostre più significative si ricordano Razionale Decorativo (Promotrice delle Belle Arti, Torino 1981); L’Avanguardia Plurale – Italia 1960/1970 (Casa D’Annunzio, Pescara 1983); Le Scuole Romane – sviluppi e continuità (Palazzo Forti, Verona 1989); Da Cézanne all’Arte Astratta – Omaggio a Lionello Venturi (Palazzo Forti, Verona e GNAM, Roma 1992);
Una generazione a Roma (Rocca Paolina, Perugia e Rocca di Umbertide, 1992); Gli amici del cuore – Omaggio a Giorgio Franchetti (Festival dei due Mondi, Spoleto, 2000); Sandro Chia – Mostra antologica (Museo Archeologico, Aosta 2001). Ha co-curato, inoltre, tra le altre: L’Attico – Trent’anni di attività di una galleria (Spoleto, 1987); The Silent Language of Sculpture (Rayburn Foundation, New York 1988); Ettore Colla 1950-1968 (Rocca di Umbertide, 1995); Da Duchamp a Warhol. Dadaismo Dadaismi (Palazzo Forti, Verona 1997); Festa per Tano. Tano Festa pittore: dagli anni Ottanta agli esordi (Palazzo Rospigliosi, Zagarolo 1999); Antologia romana (Galleria Bagnai, Siena 2002). E’ stato Segretario Generale del Premio Koiné per l’arte contemporanea, nell’ambito del quale sono state realizzate le mostre dedicate a Sol LeWitt e Jaume Plensa (1998), a Giulio Paolini e Tony Oursler (2001) nonché quelle dedicate alle collezioni di Giorgio Franchetti (1999) e de La Caixa di Barcellona.

A partire dalla fine degli anni Novanta, ha fortemente incrementato la sua attività saggistica e pubblicistica con saggi, articoli e interventi sulla politica culturale istituzionale e su i temi e i protagonisti dell’arte contemporanea.

 

Qual è il ruolo della comunicazione, anzi dell’ipercomunicazione tipica dei nostri tempi, nel condizionare le dinamiche del mondo dell’arte?

Rispondo con una citazione proveniente da quella cultura che ancora negli anni settanta veniva considerata “low”, commerciale, e che ora è l’unica forma che sembra avere corso. Pensando al ruolo della comunicazione (e in maniera estensiva ad un orwelliano controllo attualmente mascherato da un finto pluralismo) il pensiero va a Enzo Jannacci quando recitava: “la television ga la forza de un leon, la television no la ga paura de nessun”, dove per televisione si intende il potente sistema dell’informazione sottoposta al controllo delle grandi multinazionali. Se pensiamo però al mondo dell’arte, non possiamo non riconoscere che esso contiene ancora qualche sacca di resistenza. Una dimostrazione di ciò sta nella sua assoluta incompatibilità con la televisione (con buona pace per quei critici datisi in pasto ad un pubblico “di bocca buona”), che tende a mettere le pietre preziose davanti allo stupore del mondo, al pari della cronaca nera. Una incompatibilità che perdura, ma in futuro chissà, ciò che è considerato arte oggi non lo era nell’epoca passata e con molta probabilità non lo sarà in quella futura.

L’arte (intendo dire quella postmoderna) soffre di una malattia ereditaria che si manifesta attraverso l’eccentricità e lo snobismo. Ma in fondo, il potere, quello occulto, quello che sta dietro la televisione e dietro la rete, che sta dietro ogni forma ufficiale di comunicazione, è lo stesso che sta dietro l’arte. Esso si esprime in forme sofisticate ma sempre con il medesimo obiettivo di costruire consenso, con l’effetto finale dell’omologazione. L’arte contemporanea, nelle varie forme che va assumendo oggi, è alla ricerca di un consenso sempre maggiore alla propria eccentricità, e in tal modo si va sempre più omologando, ecco l’effetto finale. Bisogna imparare a non ascoltare ciò che ci viene urlato nel quotidiano, per rientrare progressivamente nel silenzioso mondo di una cultura universale.

 

In che misura e in che modo la crisi economica e di valori che attraversa l’intero Occidente riverbera e influisce sull’arte contemporanea?

Inviterei a scindere la crisi dei valori da quella economica le quali, pur coesistendo e convivendo, producono effetti differenti. Alla profonda crisi dei valori di questa nostra società postmoderna e contemporanea, infatti, non corrisponde un’altrettanto generale crisi economica, a meno che per essa non si voglia intendere la recessione che ha colpito la classe media, quella che si identifica con la piccola e media borghesia, tanto per usare una definizione desueta, o se si preferisce essere più tecnici quella che ha colpito le fasce a medio reddito. A me sembra che questa crisi dei valori sia la conseguenza di quella cultura che ha combattuto contro tutte le istituzioni e che ha trovato il suo apice nel Sessantotto, quella cultura che ha avuto come principale obiettivo polemico proprio la middle class, erroneamente fatta coincidere con quella capitalista. Il risultato che questa lotta culturale ha prodotto è stato il disfacimento della società modernista, disfacimento da cui è emersa la società attuale. La particolare condizione economica che la caratterizza, che definiamo crisi, è in realtà il prodotto di una ridistribuzione della ricchezza, dunque è una crisi soltanto apparente.

Nell’arte, al vuoto lasciato dalla crisi dei valori etici, estetici e persino formali, ha corrisposto un incremento della speculazione finanziaria. L’arte, cioè, non trovando più forza nei valori tradizionali, si è messa a disposizione della speculazione, che ha bisogno di sempre nuovi ambiti di sfruttamento: a disposizione c’è sempre più denaro in sempre meno mani.

 

Esiste ancora una autonomia e un ruolo per il critico d’arte?

Chi, il critico d’arte? Per lasciare intendere a cosa penso faccio riferimento al mondo della formazione universitaria, anch’esso globalizzato, come quello dell’arte, ma anche a quella miriade di corsi che grandi e piccoli gruppi hanno messo in campo per rispondere ad una aumentata propensione verso il nostro mondo dell’arte. I vecchi istituti di storia dell’arte, per esempio, dove si formavano i critici, sono stati via via sostituiti da altri, da corsi di conservazione dei beni culturali, di economia dell’arte, di management e via dicendo, inseguendo una domanda di mercato falsata fin dal principio da obiettivi inesistenti. Alla qualità si è preferita la quantità, nell’errata convinzione che con la cultura non si mangi (ricordiamo il proverbiale intervento del nostro efferato ex ministro dell’economia, era il 2010). Insomma, quello che voglio dire è che oggi c’è più che mai bisogno di critici, di filosofi, di intellettuali, altra brutta parola desueta, tutte figure che non passeranno mai di ruolo, essendo stato cancellato da una riforma ottusa, fatta con i paraocchi, operata da chi vede soltanto quello che altri, più bravi e attrezzati di noi, ci indicano: il mondo è in cammino verso il declino dell’uomo, i critici, considerati delle cassandre, già da tempo sono stati silenziati.

 

Che ruolo gioca il sistema dell’arte nella selezione delle figure più influenti e di successo?

Risponderei con un’altra domanda: che ruolo giocano le figure più influenti e di successo nel sistema dell’arte? A questa domanda posso aggiungere che oggi è centrale essere influenti e di successo se si vuole, chi vuole, partecipare a questo sistema dell’arte così dipendente da un’economia ottusa e globalizzata. Soltanto che smetterei di parlare di sistema, per definirlo piuttosto un dispositivo, come lo intendeva Foucault, ovvero, come un insieme “eterogeneo che implica discorsi, istituzioni, strutture architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche”. In questo modo il sistema dell’arte si allarga, si dilata includendo pezzi importanti di società. Certo, per capire la relazione che noi abbiamo con esso non bisogna perdere di vista quel che intendeva Deleuze quando affermava: “Noi apparteniamo a dei dispositivi ed agiamo in essi. La novità di un dispositivo rispetto a quelli precedenti, la chiamiamo la sua attualità, la nostra attualità. Il nuovo è l’attuale. L’attuale non è ciò che siamo, ma piuttosto ciò che diveniamo, ciò che stiamo divenendo, cioè l’Altro, il nostro divenir-altro”, un nuovo modo di vedere e di pensare forse più chiaro nelle parole di Agamben: “chiamerò dispositivo letteralmente qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi”. Così dicendo ho citato persone influenti e di successo, ma con l’avvertenza di sottolineare che queste persone, coerentemente alle loro dichiarazioni, calate come sono dentro i relativi dispositivi, sono sempre più impossibilitate a determinarne individualmente alcunché.

 

Quali ti sembrano le figure di intellettuali (curatori, direttori di museo, filosofi) prestati all’arte di maggiore interesse?

È ormai accertato che la specie degli intellettuali si sia estinta con la fine del moderno, ovvero con lo scadere degli anni settanta. Nella storia dell’arte poi, questa affermazione è corroborata dalla metamorfosi delle diverse figure afferenti a quella onnicomprensiva del curatore, l’unica che abbia ancora in qualche misura corso. Pensando agli ultimi intellettuali (precedenti dunque alla fine degli anni settanta), le figure di maggiore interesse possono essere personaggi come Szeemann, il curatore ante litteram, del cui apparato teorico, però, molto poco oggi può trovare riscontro nelle nuove generazioni; Pontus Hulten, uno straordinario direttore di museo influente e di successo, cosa che gli ha permesso di realizzare mostre di prestigio indipendentemente dalla sua levatura intellettuale, e filosofi come Günther Anders (scelgo lui per simpatia), autore non molto conosciuto e molto poco influente, ma che ha avuto il coraggio di parlare ai nostri giorni dell’inadeguatezza dell’uomo di fronte alla tecnica.

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