Storia di due artisti (troppo) fuori dal coro, di Gregorio Botta

Fonte: “La Repubblica”, 24 dicembre 2017

Due storie diverse ma in qualche modo consonanti si intrecciano nelle sale del Mart di Rovereto. Sono quelle di due artisti fuori dal coro, che hanno tracciato parabole luminose ma inattuali rispetto al loro tempo: Francesco Lo Savio e Carlo Alfano, praticamente coetanei, entrambi morti troppo presto ed entrambi non abbastanza riconosciuti. Non quando erano in vita. Il primo caso è il più clamoroso: quello di Lo Savio, (1935-1963), il giovane fratello di Tano Festa — per una complicata storia familiare non condividevano il cognome — artista romano precocissimo che nel breve arco di cinque anni creò un centinaio di opere geniali, troppo in anticipo sul loro tempo.

La mostra, a cura di Silvia Lucchesi, Alberto Salvadori e Riccardo Venturi, raccoglie la metà di quei lavori ormai molto ricercati dai collezionisti e racconta bene chi era questo ex studente irregolare di architettura, all’occasione designer con passione artigiana, frequentatore di officine da fabbro, ossessionato dallo spazio e dalla luce. Anzi dallo Spazio- luce, titolo che diede a molti suoi lavori e al suo libro. Per trasformare lo spazio in luce Lo Savio perseguì una radicale riduzione della forma, liberandola da ogni elemento narrativo e ornamento, portandola alla sua essenza: linea retta e linea curva, quadrato e cerchio, matrici di ogni altra possibile figura. Nacquero così i Filtri dai quali emergono, grazie alla sovrapposizione di carte veline o di reticoli di fil di ferro, ipnotici cerchi che paiono fatti di aria, di vento, di nulla. E così sono anche i quadri, dipinti con infiniti strati di leggerissime mani di colore: tessono una trama sottile e vibratile, creando volatili forme circolari che sembrano arrivare da un insondabile abisso.

Si librano nella tela, come emanazioni incorporee, composte — appunto — di sola luce. È incredibile che un artista così giovane fosse già così conseguente, consapevole, padrone della sua poetica.

La stessa che lo guidò nelle sculture, i Metalli piegati e assemblati con una precisione — ha raccontato la moglie — maniacale. Qui è la superficie dipinta di nero a diventare luce: basta una curvatura o una piega della lamiera per mettere nello spazio una metafisica nota luminosa. Le Articolazioni totali,

lastre di ferro inserite in cubi di cemento, furono le protagoniste della sua seconda e ultima personale alla galleria romana La Salita. Esperienza terribile. Boicottata dalla sua cerchia di amici pittori (il fratello Tano, Schifano, Angeli, tutto il gruppo di piazza del Popolo che si stava avviando verso la pop art non mise piede in galleria) fu un doloroso insuccesso. Lo Savio ne uscì sconfitto, umiliato e depresso. Disse alla moglie Marianne, per la quale aveva progettato un’utopica Maison du soleil

destinata a catturare la luce di ogni ora del giorno, di aver distrutto tutte le opere. Dieci mesi dopo si suicidò a Marsiglia, città che ospitava le architetture dell’amatissimo Le Corbusier. Era il settembre 1963 e aveva solo ventotto anni. Il termine Minimal art — che l’estetica del giovane artista aveva anticipato in tante cose — sarebbe stato coniato solo due anni dopo. Passare dalle sale del Mart dedicate a Lo Savio a quelle di Alfano (1932-1990) è come assistere a un ideale passaggio di testimone. Se il primo inseguiva lo spazio-luce, il secondo indagava sullo spazio-tempo ed entrò in scena quando l’artista romano scompariva.

La vasta antologica curata da Gianfranco Maraniello e Denis Isaia, accompagnata da un monumentale catalogo, traccia in modo completo il percorso di un artista che, come scrive Andrea Viliani, “sembra essere al contempo contemporaneo e alieno al suo tempo”. La sua è una ricerca eccentrica, ai confini del concettuale e parte dall’illusorietà di ogni rappresentazione dello spazio: di qui il ciclo di Geometrico per geografia

e Spazi in uno stesso luogo, tavole che tracciano prospettive impossibili, segnate da misure in metri e centimetri che non possono convivere: figure in cui i conti non tornano mai. C’è sempre — quasi sempre — un paradosso visivo e mentale nei lavori di Alfano: i Frammenti di un autoritratto anonimo ne sono la conferma. L’artista, che studia il Wittgenstein del Tractatus e il Foucault de Le Parole e le cose, si trova davanti a un ossimoro: l’autoritratto è senza nome

perché l’identità sfugge, il soggetto non ha volto, non è rappresentabile, l’io non è altro che un flusso che scorre nel tempo.

Perciò Alfano decide di indagare il tempo.

Nasce così la Stanza per voci, composta da due grandi cornici in alluminio, vuote: le attraversano — come un orizzonte — solo dei nastri magnetici su cui sono incise le parole di artisti, critici, galleristi, curatori. Le loro voci sono tutto ciò che abbiamo per testimoniarne l’identità.

I quadri dei Frammenti sono figli di questa potente installazione: una lunga serie di numeri, su superfici bianche o nere, si inseguono a contrassegnare il tempo che passa. Ma non sono come le cifre di Opalka, che proseguono senza fine, ordinate, in linea retta. I numeri di Alfano all’improvviso si interrompono, si capovolgono, riprendono la loro corsa su altre righe. Li mettono in disordine improvvisi silenzi, contrappunti, brevi frasi: il tempo interiore non è semplice e non è lineare. È arbitrario, capriccioso, circolare. È un tempo musicale, e infatti molte di queste tele assomigliano a spartiti. Forse era inevitabile che questa lunga corsa alla ricerca dell’io portasse Alfano alla figura. Prima fra tutte a quella di Narciso che trova e perde sé stesso in uno specchio d’acqua. Seguiranno molti lavori sul tema dello specchio, del doppio, del quadro che si divide in due e viene ricucito. Qualche volta le tele sono attraversate da figure baconiane dal volto nascosto. Qualche volta Alfano ritrae sé stesso. Anzi: ritrae Alfano che ritrae sé stesso. In un gioco di specchi in cui è impossibile sapere dove sia l’artista, dove il modello: così rappresentazione e realtà precipitano in un magnifico enigma finale. Senza soluzione possibile.

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