Mirò. Dentro l’universo del poeta dei colori, di Chiara Gatti (La Repubblica, 18-10-2015)

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Una sola fotografia, scattata da Cartier-Bresson nel 1972, dice tutto su chi fosse Joan Miró. Chiuso nel silenzio del suo studio, fra barattoli di pennelli ordinatissimi e attrezzi da carpentiere appesi alle pareti come in un’officina meccanica, strizza fra le mani una scultura d’argilla e incide dettagli con precisione chirurgica. Un camice bianco incornicia il volto di un uomo tranquillo. Non ha nulla di bohémien. A settantanove anni Mirò è ancora l’artista introverso e metodico che neanche la Parigi di Montparnasse, di Modigliani e di Chagall, notturna e tragica, è riuscito a cambiare. Testa bassa, lavora con rigore. «Lavoro come un giardiniere» confessa in uno dei suoi scritti più famosi. «Il mio atelier è come un orto. Bisogna tagliare le foglie affinché crescano i frutti». Nella sua umida stanza francese, nel quartiere della Rouche, erano sbocciati i primi prati. Per dipingere “La fattoria”,capolavoro degli anni Venti, aveva osservato per ore un mazzetto di fili d’erba portato con sé dalla casa di famiglia a Montroig, in Catalogna. Adesso, nel luminoso studio di Maiorca, spunta riccioli di ceramica e irrora vegetazioni astratte. Sono passati decenni, ma il vecchio giardiniere ha ancora un orto da coltivare perché, scrive, «i quadri fecondano l’immaginazione». A raccontare questi ultimi trent’anni di solitudine, è la grande mostra Joan Miró. Soli di notte (catalogo Skira) alla Villa Manin di Passariano, vicino Udine, dove sono esposte duecentocinquanta opere, fra dipinti, sculture, disegni, stampe e schizzi concessi in prestito dalla Fundació Pilar i Joan Miró di Palma di Maiorca e dalle collezioni degli eredi; il tutto coronato da oggetti personali usciti dal suo atelier, statuette tribali e ceramiche maiorchine, fonte d’ispirazione inesauribile, oltre a una carrellata intensa di ritratti fotografici scattati, fra i tanti, da Cartier-Bresson, Mulas, Brassaï, List, Man Ray. I curatori Elvira Cámara López e Marco Minuz hanno scelto di indagare il periodo della maturità, per scoprire un altro Miró. Che non è il cubista sulle tracce di Cézanne o di Picasso. E neppure il surrealista amato da Breton, che ha sconfitto incubi, ansie ed erotismo opaco con gioia, humour e candore disarmante. Quando, con l’invasione nazista della Francia, è costretto a ritornare in Spagna, inizia infatti per lui una fase nuova, imprevista, della sua ricerca.
Nella stagione più tetra della storia d’Europa, mentre la crisi della pittura risuona ovunque come un boato, Miró crea l’universo fatato delle sue “costellazioni” oniriche, un cosmo immaginifico dove dimenticare i drammi del quotidiano, che si fa sempre più visionario fra gli anni Cinquanta e Sessanta. Nel 1956, dopo una parentesi a Barcellona, si trasferisce definitivamente a Palma di Maiorca, la terra de- gli antenati materni. Qui aveva conosciuto Pilar, diventata sua moglie nel 1929. Qui era riparato per sfuggire al conflitto. Isolato dal mondo, ora ascolta la musica di Varèse, Béla Bartók, Schoenberg, ricorda con nostalgia l’epoca trascorsa a disegnare scenografie per i balletti russi e rilegge le lettere gentili di Kandinskij, raffinato violoncellista, «arrivato alla musica per volare via lontano». Lui, per volare, stende carte gigantesche sul pavimento e ci gira intorno lanciando getti di colore come ha visto fare a Pollock, conosciuto durante il viaggio negli States alla fine della guerra. La mostra infila una sequenza ipnotica di inchiostri e dripping , in cui le macchie, le sgocciolature di inchiostro nero come la pece, sono ombre, stagni, sterpi, selve oscure.
Occhi sbarrati nel buio fanno pensare a uccelli rapaci, civette dalla voce malinconica. Le notti stellate del Mediterraneo, notti di luna piena, luminosa come il sole (si spiega il titolo della mostra), nutrono decine di disegni degli anni Settanta, nei quali si mescolano ricordi del suo cuore catalano: i cocci di maiolica seminati da Gaudí al Parc Güell, le statuette folcloristiche delle Baleari, le antiche pulegge corrose del Museo marittimo di Barcellona che, con i lori buchi per le sartie, sembravano volti primitivi, totem da issare per riti ancestrali.
Tutto ritorna nei suoi personaggi teneri e grotteschi, grandi come una caffettiera. Volti di donna e orologi a vento hanno la stessa grazia; Miró impasta ninnoli trovati sulla spiaggia con la terra cruda, li fonde nel bronzo e li lascia fuori, all’acqua e al vento, perché assorbano la patina del tempo e un’aria di eternità. Altre costellazioni, altri uccelli lunari crescono nel suo studio sul mare dalla piccola dimensione a quella monumentale degli interventi pubblici, dal Labirinto Miró per la Fondazione Maeght di Saint Paul de Vence ai murales e le sculture per le piazze di mezzo mondo. Pagine di taccuini strappati narrano la genesi di ogni progetto, esposti accanto ai frutti del suo amore assoluto: le litografie passate sotto i torchi del leggendario laboratorio di Mourlot. Ricordiamo che nel 1954 Miró aveva conquista il Gran Premio per l’incisione alla Biennale di Venezia. In una foto splendida, “rubata” da Herbert List nella stamperia parigina, l’artista accarezza i fogli bagnati insieme a Joan Prats.
Il collezionista, il mecenate, l’amico di sempre, che dopo una vita insieme, a pochi mesi dalla scomparsa di Miró, la notte di Natale del 1983, ancora si stupisce della sua capacità di trasformare in arte tutto ciò che tocca. «Quando io raccolgo un sasso, è un sasso – dice – quando lo raccoglie Miró è un Miró».

 

 

 

 

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