Lui vorrebbe così, di Roberto Gramiccia

Lo sgomento, il senso d’impotenza e di fragilità che pervade tutti i comunisti e i democratici del mondo di fronte alla notizia della scomparsa di Fidel devono essere trasformati in forza. È questo l’unico impegno che possiamo prendere di fronte a un lutto come questo. Evitare, per quello che si può, la retorica e stringerci fra noi, chinando la testa di fronte ad un evento inevitabile ma che ugualmente ci squassa. Spiegare ai molti che non ne conoscono la storia chi è stato veramente Fidel. Fra i giovani, principalmente, far scorrere cellule di verità, anticorpi, come di un siero benefico per neutralizzare la vulgata tossica del suo essere un “crudele dittatore”.

Fidel Castro non è stato un dittatore. È stato piuttosto uno dei più grandi rivoluzionari della storia dell’umanità. L’incarnazione di ciò che di meglio possa fare un uomo per sé, per il suo popolo, per la sua specie. Ho avuto l’onore di vedere le armi con le quali un gruppo di coraggiosi e incoscienti guidati da lui attaccarono la Moncada il quel fatidico 26 luglio del 1953. Nel giorno (non molti ne sono a conoscenza) che fu l’antefatto necessario della Granma, della Sierra maestra, della Rivoluzione trionfante del 1959. Quelle armi rappresentano, nella loro esiguità povertà e rozzezza, la dimostrazione materiale della spericolatezza di un sogno di liberazione che non conosceva il buon senso ma era alimentato dal fuoco di un spiritualità sconfinata.

Una forza morale che non è solo dei martiri e dei santi, come ci hanno insegnato a scuola, ma anche degli uomini che, in terra, vogliono liberarsi delle proprie catene. Ecco, di questi uomini Fidel Castro è stato il capofila. Non solo per la spericolatezza della Moncada, ma per l’intelligenza lucida dimostrata dopo, per la capacità di circondarsi di altri splendidi rivoluzionari, per la determinazione e la forza di mantenere i risultati raggiunti, nonostante la potenza, l’arroganza e la criminalità dei suoi nemici. Lo ricordiamo ancora con quei suoi occhialoni neri guidare la risposta militare di un popolo intero contro l’attacco della Baia dei porci.

Ai suoi detrattori che parlano di dittatura e di sacrificio della libertà rispondiamo che ogni libertà autentica discende prima di tutto dall’uguaglianza. E l’isola di Cuba è stata ed è la culla dell’uguaglianza, di un’uguaglianza possibile nonostante la povertà prodotta dall’embargo. Uguaglianza significa libertà dalla fame, dalle malattie, dall’ignoranza, dall’ingiustizia: libertà dal bisogno. È questo che Fidel ha garantito per decenni al suo paese. Ed è per questo che anche i cubani, persino i suoi detrattori, non si sono mai sognati di rinunciare a lui.

C’è poi sicuramente una libertà più piena e sostanziale, quella espressa dall’autogoverno democratico dei produttori associati. A questa deve tendere una società liberata dal capitalismo. Ma si tratta di un processo, non di una verità rivelata e squadernata una volte per tutte. A questo ha teso e tende la Repubblica socialista di Cuba. E lo ha fatto grazie a Fidel Castro nei modi e nelle forme rese possibili dalla situazione reale, dallo stato dei rapporti di forza con un nemico implacabile e potentissimo: gli Stati Uniti d’America. Una volta si diceva, citando Mao: “ La rivoluzione non è un pranzo di gala ”. La storia di Cuba lo dimostra con tutte le sue grandezze e tutti i suoi limiti.

Ma oggi Fidel ci ha lasciato e noi lo piangiamo. Poco però, perché c’è troppo da fare per raccogliere il suo esempio. Quando ci lamentiamo per le difficoltà del nostro lavoro politico oggi, dovremmo avere il pudore di pensare a chi di difficoltà ne ha affrontate ben altre. Piangere poco dunque, anche su noi stessi. E lavorare molto. Lui vorrebbe così.

 

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