LE BIENNALI
di Achille Bonito Oliva (La Repubblica, 20-09-15)

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Correva l’anno 1893. Il sindaco Riccardo Selvatico firma lo statuto della Biennale dell’arte di Venezia. Da allora un’alluvione di mostre si è abbattuta sui diversi continenti del nostro pianeta. Circa quaranta istituzioni celebrano l’arte contemporanea ogni biennio. Esposizioni internazionali che rappresentano anche uno status symbol per i diversi paesi in cui avvengono le celebrazioni espositive. Conferma dello stato di salute sociopolitica del paese oppure segnale di partecipazione attiva al sistema globale dell’arte contemporanea. Biennali a Parigi, Sidney, L’Avana, San Paolo, Pechino, Cairo, Berlino, Dakar fino ad arrivare ormai nei Paesi arabi e sugli Urali.
Senza dubbio la Biennale di Istanbul per respiro progettuale e per collocazione storico- geografica rappresenta un appuntamento che consente anche di verificare lo stato dell’arte e del suo sistema. Salt Water – A Theory of Thought Forms è il titolo dato da Carolyn Christov-Bakargiev alla sua quattordicesima edizione (fino al primo novembre). Constatazione della salinità dei tre mari che riguardano la città: Bosforo, Mar di Marmara e Mar Nero e memoria di un libro della teosofa inglese Annie Besant pubblicato nel 1901 sulle forme-pensiero.
Il mare, metafora e metonimia dell’eterno movimento di acque senza riposo che circonda la terra ferma, vie di trasporto, di partenze e ritorni e talvolta di naufragio. La salinità è anche indice di saggezza e di conoscenza come ci ricorda Marcel Duchamp nel suo Marchand du sel . E questo cerca di attivare la curatrice della biennale. Indicare la possibilità di sviluppare nuovi processi di apprendimento attraverso l’incontro con opere disseminate in un vasto percorso espositivo. Trentasei stazioni e depositi del bello provvisoriamente allestiti in scuole, hammam, garage, case e palazzi, giardini, banche, musei, hotel, barche fino alle sede del giornale Agos tristemente noto per l’uccisione del suo direttore Hrant Dink, attivista armeno ed ora sede del Centro Parrhesia per la verità e libertà.
Millecinquecento opere, ottanta paesi partecipanti costituiscono l’esercito di forme visive che presiedono la città di Istanbul e isole limitrofe. Un mare non soltanto da contemplare dalla riva, ma anche da attraversare come per raggiungere il faro di Rumeli Feneri tatuato da Lawrence Weiner con l’opera On the verge .
È il nomadismo il tratto che connota l’intera esposizione ed ha come protagonista il pubblico, notoriamente terminale contemplativo di ogni mostra. Qui lo si sollecita a sviluppare un’avventura fruitiva in un percorso disseminato di opere che diventa ludicamente anche una caccia al tesoro, spesso occultato e nascosto in luoghi dall’impervio attraversamento. In questo caso la fruizione è frutto di una esperienza singolare, desiderio di conquista di una distanza minima con l’arte. Avvengono eventi multimediali che vanno dalla poesia, alla letteratura, la musica fino a toccare nuovi territori come la biologia, la psicoanalisi, le neuroscienze. Esempi, la sorprendente presenza dei disegni di Jacques Lacan dedicati allo studio dei nodi e le fotografie del medico spagnolo Ramón y Cajal che ricevette nel 1906 il Nobel per i suoi studi sui neuroni.
Ma anche la formula matematica dell’idrodinamica trova la sua eclatanza visiva attraverso un murale in grandi dimensioni sulla parete esterna dell’Istanbul Modern per opera di Liam Gillick. All’interno una mostra collettiva documenta la ricerca di artisti di diversa generazione e provenienza storica. Da Il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo fino alle installazioni di Fabio Mauri, Michelangelo Pistoletto e Giovanni Anselmo.
Non solo l’opera è frutto di un lavoro creativo ora anche il pubblico diventa operaio, invitato a continui spostamenti tra le diverse sedi della mostra. Accadono allora vere e proprie epifanie dello sguardo, riposo del guerriero e la sorpresa di immagini che annullano ogni frenesia ed invitano al rallentamento e alla sosta come per il video di Francys Alÿs The Silence of Ani, unconcerto con fischietti da richiamo per uccelli, orchestrato da ragazzini nel teatro della memoria di Ani, l’antica capitale armena distrutta e abbandonata. Sorprende nell’antico hammam Cababaret Cruisades una video-crociata di marionette di vetro che conclude la trilogia di Wael Shawky. L’esplorazione passa da luoghi pubblici come la scuola italiana e quella greca alla bottega di ceramiche inscenata da Theaster Gates, e gli intarsi di Walid Raad in un caveau, fino alla visita al vuoto creato dal turco Cevdet Erek in un garage. La visita si fa sempre più intima nel Museo dell’innocenza di Orhan Pamuk, una messa in scena casalinga di fantasie letterarie del noto scrittore turco, impreziosite ora da due disegni del grande pittore armeno Gorky. Poi esplode di nuovo il viaggio all’aperto. Il mare rinnova il desiderio di avventura. Una salutare inquietudine accompagna lo spettatore, un ulteriore esodo fuori dalla città di Istanbul per arrivare a Buyukada, l’isola abitata da Trotsky per un tempo del suo esilio nelle Isole dei Principi. La presenza del grande russo è celebrata in maniera struggente da Kentridge nel salone dell’antico Hotel Splendor. Dall’impervio giardino della villa da lui abitata appaiono come un miraggio le grandi sculture fluttuanti sul mare di Adrian Villar Rojas. Intreccio e metamorfosi del mondo animale e naturale, frutto di un felicemente disinibito gusto barocco. Altre case espongono e nascondono opere di diversa ispirazione. Ed Atkins illustra con immagini, canto e parole l’ultima mezz’ora di vita di un uomo il cui letto è sprofondato in una voragine del pavimento. Fatto realmente accaduto negli Stati Uniti.
Il viaggio si conclude di nuovo in mare aperto tra i flutti e le onde che indicano e cancellano nello stesso tempo la virtualità di un’opera in progress Abyssal Plain. Pierre Huyghe, ispiratore della curatrice in altre avventure espositive, dedica il suo lavoro a un capolavoro della letteratura mondiale L’invenzione di , che trova nel ciclico movimento delle onde una possibile eternità della nostra vita. Sembra questa essere l’epigrafe dell’intera Biennale. L’affermazione di un’arte che è una continua domanda sul mondo e mai cir-coscritta risposta agli affanni del nostro quotidiano. La speranza diventa un balsamo capace di alleviare, placare e trasformare la nostra perenne ansietà in uno stato d’animo che è anche nuova cognizione del nostro esistere e resistere.

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