LA TURCHIA SOSPESA di Ferhat Ozgur, di Anna de Fazio Siciliano

50833_Ozgur_I-Can-SingA Istanbul, ecco dove ha ancora senso parlare di 8 marzo. Soprattutto adesso, ancora adesso dopo l’ennesimo divieto a manifestare per la festa delle mimose. Non siamo in Iran ma in Turchia eppure Leggere Lolita a Teheran, lo splendido romanzo di Azar Nafisi, può costituire un vasto luogo ideale dove si incontrano in una chat ironica (“Metamorphosis chat”) le due donne protagoniste del video di Ferhat Ozgur. Ancora fino a sabato 12 allo spazio Album Arte di via Flaminia, le due donne, di stessa generazione ma diversamente colte, non si scambiano come succede lungo le pagine del romanzo, davanti a un placido tè, il racconto di tragiche avventure quotidiane o preziosi consigli di lettura. Si scambiano semmai vestiti, scarpe, indumenti e identità. Anche se solo per un istante, per il tempo di un click da foto-reporter. L’artista turco Ferhat invece (seguendo una lettura personale di Flavio Favelli presente in sala) non può infilarsi in un libro e fuggire dalla realtà del suo paese, né vestendo gli abiti di un altro e occidentale, né tantomeno indossando uno sguardo altro da sé. Togliendosi le bende dell’esotismo dagli occhi, la Turchia è un paese “bruciato” dove l’arte, se ha senso parlare di arte, non può trovare posto, se non come semplice documento, manifestazione ancora vagamente lecita, come luogo, via di fuga e denuncia. Di cosa? Di una assoluta mancanza di libertà ed espressione tanto per cominciare, ma anche di marginalizzazione quando non deprecazione delle donne. E di divieto, pena la prigione da 6 mesi a 2 anni (non più 3), di ironizzare, pronunciare, offendere più o meno esplicitamente la bandiera turca e il concetto stesso di “turkishness” l’identità turca. L’operazione di Ferhat quindi è doppiamente coraggiosa, perché apparentemente scanzonata come nel lavoro “I love you 301” dove un manifesto nero con scritte bianco, da annuncio funebre, ripete come una nenia la norma 301 del codice penale turco (che aveva visto finire sotto accusa anche Pamuk) con delicata tragica ironia. “It’s time to dance” vede come protagonista invece una donna. La performer con tanto di burqa (l’Oriente) e anfibi (l’Occidente) si sfoga sul ritmo di in una taranta araba, folle e scomposta al riparo da tutto e tutti. Lontana, sull’“acropoli” deserta della città. Fuori dalle regole, dai confini, dai controlli. Fuori, nell’unico non- luogo dove una donna può prendere possesso di uno spazio, della vita, del suo stesso corpo. Exesto! Solo lì ai margini della società. Il 4° video, il più poetico, a tratti inquietante: “Remains of the day” sovrappone sogni a incubi, strade libere attraversate da corse pazze in bicicletta a frange di ragazzi schierati come eserciti che percorrono senza sorriso le stesse strade dove solo poco prima avevano lasciato volare in cielo palloncini d’aria. Trasformati in cammelli di libri e personaggi sghembi da quadri di Balthus: perennemente bloccati nella contraddizione dello stare in bilico perché sempre protesi verso altri luoghi, altri spazi, altre coordinate geografiche. Sempre a mezz’aria come palloncini pronti a scoppiare per il nonsense dell’unica risposta possibile che è la fuga dal reale.

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