“La mostra sul ’68 che dimentica la lotta di classe”, di Pablo Echaurren

Fonte: Huffingtonpost, 10 ottobre 2017

Alla Galleria Nazionale (una volta detta Gnam) c’è una mostra che dichiara di voler celebrare la contestazione, il ’68. “È solo un inizio”, questo il titolo che mima il celebre slogan del maggio francese: “Ce n’est qu’un début, continuons le combat”.

Ma che c’entra il ’68 con questa mostra?

In verità trattasi della solita mostra snobistica fatta per accaparrarsi un primato intellettuale e compiacere il mondo dell’arte, per ricostruire la storia a posteriori, falsandola, mistificandola, reinventandola a proprio uso e consumo. A uso e consumo di una tendenza dell’arte che tende a escludere tutte le altre. Come se l’arte povera, il minimalismo, la Land art fossero le sole realtà legate a una temperie che invece cercava in ogni direzione. Restituire l’immagine di un ’68 artistico slegato da ogni effettiva relazione con la contestazione che dilagava nelle strade, nelle scuole, nelle fabbriche, che invadeva tutti i segmenti dell’esistente, equivale a tradire ogni sua aspirazione, ogni sua tensione. Equivale a devitalizzare e riscrivere la storia con gli occhi di un mercato ben organizzato, proprio ciò che il ’68 ha combattuto con ogni forza.

 Il ’68 in Europa (non negli Usa dove tutto iniziò assai prima a Berkeley nel ’64) rappresenta il momento in cui diverse classi (operai e studenti soprattutto) si saldano nel desiderio di portare l’assalto al cielo, nell’intento di costruire “un mondo migliore”, di dargli una forma nuova. Fu un’ondata che coinvolse tutta la società, che condizionò visioni e comportamenti. Che modificò anche la percezione dell’arte da parte degli artisti. Si contestava il sistema capitalistico, quello mercantile, la stessa opera d’arte veniva messa in discussione in quanto feticcio. Gastone Novelli, il cui quadro L’oriente risplende di rosso del 1968 è imprescindibile per raccontare quella stagione, alla Biennale di quell’anno espone i suoi quadri rivoltandoli verso il muro, rendendoli invisibili e scrivendo sul retro della tela “La Biennale è fascista”. E Gastone Novelli in questa mostra non c’è. Piero Gilardi nel 1968 interrompe la propria produzione per dedicarsi all’anti-psichiatria e per unirsi ai gruppi della nuova sinistra extra parlamentare. E Piero Gilardi in questa mostra non c’è. Enrico Baj con i suoi “generali” incarna perfettamente lo spirito antimilitarista che impronta di sé l’intero movimento e Enrico Baj in questa mostra non c’è.

Pino Spagnulo dà il suo contributo alla protesta del 1968 attraverso un’idea di scultura militante che intende essere condivisa fattualmente con gli operai del Pignone, degli altiforni e delle acciaierie che hanno contribuito a forgiarla. Nascono le immense falci e martello e gli omaggi ad Angela Davis e al Black Panther Party. E Pino Spagnulo…. Avete già capito che Pino Spagnulo non c’è. Così come non ci sono…. Öyvind Fahlström, Ben Vautier, Joseph Beuys, Fabio Mauri, Gianni Emilio Simonetti, Errò, Yoko Ono e John Lennon con i loro “bed-in”, Jean-Jacques Lebel, l’Atelier Populaire, la poesia visiva… la lista sarebbe troppo lunga. E non ci sono perché comunque non sono ascrivibili alle correnti care a chi ha curato la scelta.

Insomma una mostra che col ’68 c’entra come i cavoli in un dejeuner sur l’herbe. Una mostra di opere fatte sì nel ’68, ma che certo non possono essere considerate rappresentative di quel movimento, un’esposizione che espunge la concretezza della partecipazione politica, la sporcizia del sogno collettivo, l’umore e il rumore di un’arte che voleva sintonizzarsi e comunicare coi manifestanti: street fighting art. Dove sono le piazze, le occupazioni, le furibonde discussioni?

Dov’è la lotta di classe?

Dunque solo una mostra compiacente e ammiccante a una tendenza ormai vincente nel mondo della critica e dei musei internazionali (quella dell’arte povera, per dirla in una parola), una mostra elitaria e riduttiva, banalizzante, estetizzante, noiosamente radical chic, in cui i due quadri di Mario Schifano e Franco Angeli con le loro bandiere rosse stanno lì come foglie di fico per giustificare un’operazione di rimozione, di cancellazione e di riduzione della realtà a un modello unico.

In sintesi: un titolo fuorviante, una connessione (quella con il 1968 come anno della ribellione per antonomasia) usurpata, un’occasione sprecata.

 

About The Author

Related posts

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.