DETERMINAZIONE E PERSEVERANZA. L’arte di Anna Conway, di Silvia Tusi

It's not going to happen like thatPer la prima volta in Italia, Anna Conway, artista newyorkese, espone alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia con la mostra Purpose, per la quale ha dipinto alcune opere tra il 2014 e il 2015. Il percorso espositivo parte tuttavia da un’opera del 2013, It’s not going to happen like that (Non succederà come pensate) che, insieme al titolo della mostra, fornisce già una chiave di lettura interessante di quello che ci si accinge ad ammirare nel suo lavoro di questi ultimi anni. Ad accompagnare la mostra un catalogo edito dalla Silvana Editoriale, in cui troviamo un’intervista di Bob Nickas alla Conway.

L’artista racconta che da bambina sognava di aprire un rifugio per animali, a forma di arca. Voleva prendersi cura di altri esseri viventi, offrire loro amore e protezione, salvarli dalle insidie del mondo. Di fatto la sua vita si è sviluppata in un’altra direzione, senza però allontanarsi dalle sue aspirazioni infantili. È rimasta cioè l’aspirazione a prendersi cura. I suoi preziosi oli su lino, così ben dipinti fin nei minimi particolari, ci comunicano il suo modus di prendersi cura dello spazio e del tempo, di piccoli oggetti all’apparenza insignificanti, di persone disperse in luoghi asettici o fintamente personalizzati. L’importanza conferita al particolare, al piccolo uomo in spazi immensi, al dettaglio che sfugge a un occhio distratto, è determinata dal gesto del dipingere da un lato – questa sua capacità di raffigurare tutto con minuziosa precisione, quasi come un amanuense col suo prezioso volume – e dall’altro dall’accorgersi di una realtà impercettibile, che per molti non ha importanza, non merita tempo ed energie. Come accogliere un animale randagio, curarlo e donargli attenzione e amore, laddove aveva ricevuto solo maltrattamenti e urla.

Il silenzio è un altro elemento interessante nei suoi quadri. Gli spazi vuoti, immersi nella luce o nell’oscurità, sono pervasi dall’illusione di un silenzio che in realtà non esiste. Le aree urbane hanno sempre rumori di sottofondo: il vicino che canta, il traffico della strada, la musica di qualche chiosco, il clacson di una macchina, la gru dei lavori in corso nel palazzo di fronte. E anche laddove ci sembra di intravvedere una natura apparentemente tranquilla, il silenzio è una realtà che non esiste, perché il vento scuote gli alberi, gli animali comunicano tra loro o semplicemente i suoni della natura stessa hanno un loro modo di intromettersi e spezzare l’inquietudine di un mondo privo di sostanze uditive.

E poi c’è il gioco dei titoli, in cui non è l’elemento più evidente a dare il nome al quadro. Mi ricorda un opera di Hiroshige, in cui troneggia un grosso pesce. Non si può fare a meno di guardarlo, prende gran parte della superficie della stampa, ma poi si resta delusi leggendo il titolo – Il ponte Suido e (il quartiere di) Surugadai – che invece riguarda un ponte, una piccola struttura di legno in cui ancor più piccole camminano alcune figure. Il pesce sovrasta l’immagine e così lo sguardo superficiale non vede il ponte, che sta al di là della grossa carpa. Un po’ come guardare il dito invece della luna. Oppure semplicemente fermarsi alla superficie delle cose e non scrutare meglio, vedere cosa c’è oltre, al di là di ciò che viene messo in primo piano. La distrazione dei grandi spazi, in Anna Conway, è un bellissimo esercizio di attenzione e presenza di sé. Bisogna proprio accostarsi bene al quadro e vedere cosa realmente sta accadendo. I titoli delle opere in mostra sono parole molto evocative, che ci suggeriscono una differente visione dell’opera e dell’arte in generale: Devotion, Determination, Perseverance, Potential. Sembrerebbe un invito a prendersi la responsabilità di certe azioni definitive, quasi fossero una dichiarazione di intenti per cominciare a vedere ciò che la realtà ci mostra realmente. È come se ci fosse un velo da scansare, un confine da attraversare, bisogna cioè prendersi il tempo che occorre e avere pazienza, quella che probabilmente caratterizza l’artista nel suo dipingere minutamente i dettagli e nell’utilizzare una tecnica così realistica e fotografica. Se non siamo capaci di restituirle questa pazienza, non possiamo capire cosa accade nelle sue opere, in che attimo si stanno svolgendo, qual è il messaggio che si nasconde dietro all’enigma di una nave nel prato (come in Potential) o di un post-it attaccato allo specchio che intima Non succederà come pensate.

E in effetti chissà cosa e come accadrà.

Il futuro è inconoscibile, ecco perché nelle opere della Conway esiste solo il momento presente, l’attimo colto al volo, fotografato, registrato e dipinto in ogni suo movimento, in quell’istante e basta, irripetibile e unico. Ed è come se questo momento fosse inesorabile, definitivo, come se dopo non possa più accadere nulla, o debba succedere qualcosa di inaspettato, appunto differente da ciò che crediamo possibile. E quel post-it allora diventa non più soltanto un avvertimento ma una certezza, in un mondo in cui tutto è illusione e trompe-d’oeil. Così il Peaceable Kingdom in realtà è una parete dipinta, svelata grazie a un buco che mostra i cavi della corrente elettrica. Così come in It’s not going to happen like that, in cui il giardino è un dipinto nel dipinto, perché un banale interruttore della luce ne copre una minuscola parte e ne scopre l’irrealtà, l’illusione ottica. Pittura nella pittura, uno spaesamento che costringe a concentrarsi meglio, a chiedersi il perché delle cose, a sforzarsi un po’ per capire esattamente cosa sta accadendo. Quasi a voler guardare il fondo di un lago, come fanno le esili figure di Pound of Cure, sdraiate sul bordo di un bacino d’acqua artificiale, circondato da alberi che sembrano sbarre di una prigione, spezzati a metà dalla prospettiva del quadro che ne fa intuire solo i primi rami coperti di foglie.

Il titolo della mostra, Purpose, è forse un richiamo all’ordine: qual è lo scopo di tutto ciò? Qual è il fine ultimo di queste realtà rarefatte che nascondono sempre mille illusioni? Cosa possiamo aspettarci da una separazione così netta tra interno ed esterno, quando invece tutto dovrebbe essere interconnesso e comunicante? In certi casi la tentazione è di fuggire, abbandonare quei luoghi così già desolati e andare non si sa bene dove, alla ricerca di quel legame spezzato che è un po’ come il taglio del cordone ombelicale, un trauma della nascita che si reitera a volte per tutta la vita.

Sempre nella stessa intervista a Bob Nickas, Anna Conway, parlando di Peaceable Kingdom e di It’s not going to happen like that, afferma: “Mentre lavoravo a questi due quadri, riflettevo fondamentalmente sulla finalità della pittura, e anche sulla fuga. Entrambi rappresentano un’immagine realizzata direttamente sulla superficie delle ‘caverne’ di cartongesso nelle quali viviamo, e ognuno rappresenta la natura, nello specifico una natura del tutto idealizzata […] un’opera d’arte davvero grande ha il potere di cambiarti la vita. Pensavo a chi potrebbe aver commissionato pitture murali come quelle dei miei due quadri, cioè immagini della natura da cui farsi avvolgere nella propria casa – un po’ come le scene di bisonti rappresentate nelle caverne preistoriche – perché desideravano fortemente quell’esperienza visiva”. L’arte come fuga dalla realtà ma paradossalmente anche come riappropriazione di una realtà altra, come possibilità di liberarsi dall’illusione di ciò che non ci è mai appartenuto e di scoprire, al di là di un muro dipinto, quello che davvero vogliamo per noi stessi. Questa istigazione alla fuga sembra suggerita nell’opera Perseverance, in cui nello spazio asettico di un ufficio (talmente impersonale da sembrare l’area espositiva di un grande negozio di mobili), sopra una cassettiera troneggia il poster di un Moai di Rapa Nui, un’immagine esotica che potrebbe star lì per esortare a spingersi lontano, in luoghi magici, oppure semplicemente a ricordare un viaggio già compiuto, di cui si ha costantemente nostalgia. L’esortazione quindi non è alla fuga, ma alla capacità di allenare se stessi alla realtà che ci circonda fino a svelarla. Forse la perseveranza di cui parla la Conway è proprio questa: l’invito a non mollare, a esplorare tutto ciò che sta intorno a noi così come nel nostro spirito più profondo e nascosto. Ad un certo punto ci sveglieremo dal sogno e ci renderemo conto che non è accaduto ciò che pensavamo, il velo è stato tolto e qualcosa di totalmente inaspettato ci ha accolto, prendendosi cura di noi.

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