CABARET VOLTAIRE, di Paolo Mauri (La Repubblica, 31-01-2015)

0003300_montage_600_andre-breton-01ZURIGO, 1916, La Svizzera accoglie gli intellettuali in difficoltà nei loro paesi in guerra e Hugo Ball, poeta e regista teatrale tedesco, il 5 febbraio fonda il Cabaret Voltaire. Racconta Hugo stesso di aver chiesto a un certo signor Ephraim, proprietario del bar Meitrei che si trovava al numero 1 di Spiegelgasse, di concedergli la sala che aveva sul retro. Voglio fare un cabaret, fu la sua dichiarazione. E l’autore di

caustico e libertario, era il nome giusto a cui intitolarlo.

Fu il primo atto dell’avanguardia Dada: una parola che non vuole dire nulla. Basta guardarlo, Hugo Ball, intubato in un goliardico costume di scena, per recuperare immediatamente lo spirito del tempo. Bisogna distruggere il senso comune o il senso tout court. La pittura non vuole più ritrarre l’uomo, la poesia lascia perdere la lingua. L’avanguardia Dada è massimalista, vuole disintegrare lo spirito benpensante della borghesia e Hugo Ball dichiara: fino a che il delirio non si sarà impossessato della città intera, il Cabaret non avrà raggiunto il suo scopo.

Negli scritti di Ball (ora proposti da Castelvecchi) si documenta dunque l’impresa di un gruppo di artisti, letterati e pittori, da Tristan Tzara a Marcel Janco e Max Oppenheimer — senza tralasciare l’attrice Emmy Hennings che è la moglie di Ball e secondo la stampa dell’epoca è la vera stella del Cabaret. Si comincia, racconta Ball, con una russa seguita da una francese, con brani di Apollinaire, Max Jacob, Jarry e Rimbaud, poi molta musica negra. Si progetta una rivista che si chiamerà che in rumeno (e Tzara è rumeno) vuol dire “sì-sì”, mentre in francese indica il cavallo a dondolo. Tzara stesso ribadirà però più volte che Dada non vuol dire niente. È una pura provocazione, ma anche un invito a sperimentare nuove forme. È consapevole di avere alle spalle Marinetti e il Futurismo, e molti futuristi collaborano infatti alla rivista La divisione arriva semmai a proposito della guerra: Marinetti era per l’intervento e esaltava lo scontro, i dadaisti sono contrari e vanno in scena nella Svizzera neutrale mentre l’Europa è in fiamme. Al Cabaret, Hülsenbeck, Tzara e Janco recitano un si canta e si fischia simultaneamente, strillando per vari minuti una “ prolungata tra le urla delle sirene. D’altra parte lo stesso Ball aveva scritto il poema che così all’inizio dice: “ Jolifanto bambla ô fallibambla/ grossiga m’pfe habla horem…”. Non è difficile immaginare la reazione di molti, del resto non diversa da quella del pubblico che accorreva e fischiava gli spettacoli dei futuristi, con le loro parole in libertà e con gli intonarumori e altre funamboliche prodezze. Un letterato lontano dalle avanguardie come Riccardo Bacchelli considerava le esternazioni Dada come delle autentiche

sciocchezze infantili.

Ma era un modo miope di leggere quella che, invece, restava l’espressione di un fermento creativo tutt’altro che inerte. Ball ribadiva che Dada è un gioco da pazzi uscito dal nulla, una condanna a morte per la morale e la pienezza dei benpensanti. Ma le dichiarazioni di principio non sono tutto: il vero centro motore del movimento sta nell’uso dei suoni e nel privilegio dell’immagine e della improvvisazione. Ball diceva di avere inventato un nuovo genere di versi senza parole e predicava un ritorno all’infanzia. Sarà un caso, ma negli stessi anni il grande linguista svizzero Ferdinand de Saussure ragionava e pubblicamente, facendo lezione all’università, intorno all’arbitrarietà del segno linguistico che i Dada in qualche modo terremotavano. Naturalmente un gruppo del genere era destinato a sfaldarsi presto, anche se aveva fatto in tempo a mettere radici in Francia e in Germania. Ma i Dada essendo contro tutti gli “ismi” erano avversi anche al dadaismo. Hugo Ball ebbe poi una sorta di crisi mistica e si dedicò a un‘opera,

Cristianesimo bizantino,

che forse è il capolavoro incongruo di una vita Dada conclusa troppo presto, intorno ai quarant’anni.

A raccoglierne l’eredità ci avrebbero pensato i Surrealisti di Breton, fautori della scrittura automatica che in qualche modo codificava lo spontaneismo dei loro non lontani predecessori.

In modi diversi i movimenti d’avanguardia cercavano un’alternativa globale al mondo borghese legato al capitalismo, con spinte anarchiche (Bakunin) e una biblioteca che in qualche modo li univa, nei nomi di Baudelaire, Rimbaud, Novalis, Lautréamont e altri ancora. Il Surrealismo, come si sa, scelse la via del comunismo. Ma è nell’accento sulla sperimentazione del nuovo il lascito maggiore delle avanguardie, non senza esiti che riguardano anche noi.

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