ANSELM KIEFER, L’arte è una lotta contro la storia, di Fabio Gambaro (La Repubblica – 6 marzo 2016)

au-centre-pompidou-anselm-kiefer-atteint-le-point-godwin,M287335Per Anselm Kiefer l’arte è un corpo a corpo incessante con la storia, le sue tragedie e le sue ferite dolorose. Fin dalle sue prime opere, l’artista nato nel 1945 tra le macerie della Germania sconfitta e prostrata ha usato la creazione artistica per interrogarsi sul passato del suo paese e sulle contraddizioni dell’identità tedesca, immaginando un gesto creativo capace di scuotere le coscienze e fare i conti con un passato ingombrante che in troppi volevano rimuovere dalla memoria collettiva. All’artista tedesco che da oltre vent’anni ha scelto di vivere in Francia, tra Parigi e le Cevenne, la capitale francese dedica ora un importante omaggio, proponendo al Centre Pompidou (fino al 18 aprile) la prima grande retrospettiva in terra francese del suo lavoro. Organizzato su un doppio asse tematico-cronologico, l’affascinante percorso curato da Jean-Michel Bouhours propone oltre centocinquanta opere, tra cui una sessantina di grandi tele, due monumentali istallazioni e numerose opere su carta. Senza dimenticare una quarantina di “vetrine d’artista” contenenti composizioni di oggetti eterocliti scelti in una sorta di personale “riserva dei possibili”. Un modo per Kiefer di risemantizzare poeticamente una materia consumata fatta di macchinari arrugginiti, mattoni sbrecciati, cocci di ceramica, vecchie fotografie, oggetti di piombo, alambicchi e pezzi di legno. Tutti frammenti di un modo scomparso che, alludendo ai misteri della cabbala e dell’alchimia, recuperano il vecchio sogno di trasmutare il piombo in oro.

E proprio il piombo è da sempre una delle materie predilette dell’artista, il quale nel 1985, quando venne rifatto il tetto della cattedrale di Colonia, ne recuperò un’ingente quantità che poi utilizzò in molte opere. Attraverso il piombo e il sogno della trasmutazione alchemica, Kiefer ha elaborato una potente metafora del lavoro dell’arte costantemente alle prese con il tentativo di sottrarre frammenti di vita e di senso alle macerie del tempo e all’inferno del senso di colpa. Un lavoro però costretto sempre a ricominciare da capo, in quanto incapace di raggiungere un risultato definitivo. Quella dell’artista tedesco che nel 1999 ha ricevuto il Premio Im- periale è infatti un’arte costantemente in bilico, come le sue famose torri pericolanti, rovine sottratte all’oblio in cerca di un equilibrio che eviti il crollo definitivo. O come Lilith (1987-1990), un grande e intensissimo quadro in cui una città verticale sembra in procinto d’essere inghiottita da un pulviscolo di cenere e argilla, dove oltretutto il paesaggio minacciato da missili e papaveri ricorda tanti scenari di guerra oggi tristemente noti.

Per Kiefer però «l’arte sopravviverà alle sue rovine», come ha spiegato qualche anno fa al Collège de France. Un’idea ribadita anche nell’imponente installazione allestita al piano terra del Centre Pompidou e intitolata

Salendo, salendo verso l’alto, sprofonda nell’abisso. Qui, nel vasto pozzo centrale di una torre fatta di container, un groviglio di bande di piombo ricoperte di fotogrammi sbiaditi scende dall’alto fino a toccare uno specchio d’acqua nella penombra. Il movimento dalla luce al buio sembra rimandare all’universo del cinema, solo che la celluloide si è trasformata in piombo e i fotogrammi non sono altro che frammenti disarticolati e scomposti di una memoria privata in rovina. Il movimento di discesa nel profondo della propria coscienza attraverso le liane del pensiero e della memoria può però dar luogo a una qualche forma parziale di rigenerazione e di rinascita.

Le tredici sale della mostra parigina rendono conto dei diversi periodi dell’artista tedesco, dando spazio alla sua pittura monumentale e drammatica che lavora per serie e temi ricorrenti, accumulando strati di colori (soprattutto grigio, beige, marrone, bianco sporco, ecc.) a cui si aggiungono altre materie, come la paglia, la cenere, l’argilla o il piombo. Il visitatore può allora seguire l’evoluzione del lavoro di Kiefer, dalle prime opere degli anni Settanta, quando il giovane artista si ritraeva provocatoriamente con la divisa della wermacht di suo padre e facendo il saluto nazista, fino alle tele degli ultimi dieci anni, nelle quali sembra riscoprire una gamma di colori più vivi. Si pensi ai campi di fiori ispirati alla poesia di Baudelaire e Rimbaud – ad esempio Dormeur du val (2013-2015) – anche se certo la stratificazione e la densità della materia impedisce qualsiasi visione idilliaca della natura. O anche a un acquarello del 2014, La fine dei giorni, il giorno di ogni fine, in cui uno squarcio d’orizzonte rosa lascia intravedere una prospettiva più serena e liberata dal peso della storia.

In mezzo scorre tutta l’opera di Kiefer, che il cui gesto plastico, oltre a rivisitare la mitologia tedesca e la storia tormentata del suo paese, si confronta con l’universo della letteratura, convocando i fantasmi di Jean Genet, Ferdinand Céline, Viginia Woolf o Ingeborg Bachmann. Ma soprattutto Paul Celan, a cui sono dedicate due opere particolarmente suggestive: Margarethe del 1981 e

Per Paul Celan: fiori di cenere del 2006, in cui i libri bruciati che escono letteralmente dall’enorme tela restituiscono tutta la violenza di un mondo ridotto a una gelida terra desolata, su cui sembra riecheggiare la triste profezia di Heinrich Heine: «Là dove si bruciano i libri, si finisce per bruciare anche gli uomini».

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